Sistri e reati

SISTRI E REATI: responsabilità delle Società
Dlgs. 231/2001 art. 25 undecies co. 2 lett. g).
art. 260 bis Dlgs. 152/2006
 A cura di avv. Cinzia Silvestri
Lo Studio Legale Ambiente continua lo schema di chiarimento delle novità introdotte dal Dlgs. 231/2001[1] per i reati di cui al Dlgs. 152/2006 in vigore dal 16.8.2011; e ciò con riserva di precisare in ordine alla natura della responsabilità degli Enti  come indicati all’art. 1 Dlgs. 231/2001 (enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica).
 Art. 260 bis Dlgs. 152/2006 (novità).
L’articolo 260 bis è stato introdotto nel nostro ordinamento dal  Dlgs. 205/2010  (vigente al 25.12.2010) assieme alle altre sanzioni relative al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri) .
E’ tuttavia nota la vicenda normativa che ha coinvolto proprio l’art. 260 bis che, assieme a tutto il sistema Sistri, veniva abrogato dall’articolo 6, comma 2, lettera d) del Dl 13 agosto 2011, n. 138; per poi rivivere con la legge di conversione del  14 settembre 2011, n. 148; legge che ha posto nel nulla il decreto abrogativo.
Ebbene circa un mese prima della abrogazione a mano del Governo (DL 13.8.2011 n. 138) il Parlamento aveva riformato proprio ed anche l’articolo 260 bis (Dlgs. 121/2011 del 7.7.2011). introducendo i commi 9bis e 9ter.
L’entrata in vigore delle modifiche (17.8.2011) successiva alla abrogazione segnava una battuta di arresto dell’intera normativa.
La legge di conversione del 14.9.2011 n. 148 riporta in luce anche il testo modificato dell’art. 260 bis.
Le modifiche intervenute sull’art. 260 bis hanno introdotto solo i commi 9 bis e 9 ter. Sono modifiche che non prevedono nuovi comportamenti sanzionabili bensì benefici e riduzioni di pena.
 Reati ex art. 260 bis e Dlgs. 231/2001
Nel caso di reati e dunque di comportamenti ritenuti gravi dal legislatore e che vengono puniti con pena che incide sulla libertà personale quale la reclusione
1)    nessun trattamento premiale di riduzione della pena
2)    previsione di responsabilità amministrativa della società ex Dlgs. 231/2001 ex art. 25 undecies.
Lo schema è il seguente:
 

reato Pena ex Dlgs. 152/2006 Sanzione Società
ex Dlgs. 231/2001
Sanzioni interdittive
art. 260 bis comma 6
Certificato analisi rifiuti falso
 
pena reclusione fino a 2 anni (art. 483 c.p.)
 
 
Da 150 a 250 quote
 
Non prevista
Art. 260 bis comma 7 secondo periodo
Trasporto senza copia cartacea sistri rifiuti pericolosi
pena reclusione fino a 2 anni (art. 483 c.p.)
 
Da 150 a 250 quote
 
Non prevista
Art. 260 bis comma 7 terzo periodo
Trasporto uso certificato fase indicazioni
pena reclusione fino a 2 anni (art. 483 c.p.)
 
Da 150 a 250 quote
 
Non prevista
Art. 260 bis comma 8 primo periodo
Trasposrto con scheda cartacea sistri alterata
Pena reclusione da 4 mesi a 2 anni
(477 e 482 c.p.)
Da 150 a 250 quote
 
Non prevista
Art. 260 bis
Comma 8 secondo periodo
Trasporto scheda sistri alterata rifiuti pericolosi
Pena reclusione da 4 mesi a 2 anni
(477 e 482 c.p.) con aumento fino ad 1/3
Da  200 a 300 quote Non prevista

 
Si ricorda che la sanzione amministrativa prevista dall’art. 10 del Dlgs. 231/2001 indica un particolare sistema di calcolo della sanzione: “…2.  La  sanzione  pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento ne’ superiore a mille.   3.L’importo di una quota va da un minimo di lire cinquecentomila ad un massimo di lire tre milioni.”
Ovvero da un minimo di 250 Euro a 1500 Euro.
 



[1] IL DECRETO LEGISLATIVO 7 luglio 2011, n. 121  (attuazione   della   direttiva   2008/99/CE   sulla   tutela   penale dell’ambiente, nonche’ della direttiva 2009/123/CE  che  modifica  la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni. (11G0163) è entrato in vigore il 16.8.2011.
 
adminSistri e reati
Leggi Tutto

Reato ambientale: art. 256 comma 4

Dlgs. 231/2001 e reato ex art. 256 comma 4
 
A cura di avv. Cinzia Silvestri
 
Lo Studio Legale Ambiente propone secondo schema di chiarimento delle novità introdotte dal Dlgs. 231/2001 per i reati di cui al Dlgs. 152/2006; e ciò con riserva di precisare in ordine alla natura della responsabilità degli Enti  come indicati all’art. 1 Dlgs. 231/2001 (enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica).
 
IL DECRETO LEGISLATIVO 7 luglio 2011, n. 121  (attuazione   della   direttiva   2008/99/CE   sulla   tutela  penale dell’ambiente, nonche’ della direttiva 2009/123/CE  che  modifica  la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni. (11G0163) è entrato in vigore il 16.8.2011.

Particolare attenzione all’ art. 256 comma 4 Dlgs. 152/2006.
Il comma 6 dell’art. 25 undecies del Dlgs. 231/2001 prevede la riduzione a metà della pena per le ipotesi di reato di cui all’art. 256 comma 4 Dlgs. 152/2006 con riferimento alle sanzioni di cui al comma 2 lettera b)  dell’art. 25 undecies Dlgs. 231/2001.
Recita il comma 4 dell’art. 256: Le pene di cui ai commi 1, 2 e 3 sono ridotte della metà nelle ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni.
Il reato prevede due diverse condotte ovvero:
1)    inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni;
2)    carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizionicomunicazioni.
Il riferimento dunque è solamente alla violazione dell’art. 256 comma 1 lett. a) e b) ; comma 3 primo e secondo periodo.
 
In particolare le pene previste per il trasgressore (Dlgs. 152/2006) e per la Società (Dlgs. 231/2001) risultano:
 

reato

Art. 256 comma 4

Pena ex Dlgs. 152/2006

Sanzione Ente

ex Dlgs. 231/2001

Sanzioni interdittive

art. 256

comma 1 lett. a)

(gestione non autorizzata)

pena dell’arresto da 1 mese e mezzo a 6 mesi

o

con l’ammenda da 1300 euro a

13000 euro

Fino a 125 quote

Non prevista

Art. 256

comma 1 lett. b)

(getione non autorizzata/rifiuti pericolosi)

pena dell’arresto da 3 mesi a 1 anno

e

con l’ammenda da 1300 euro a

13000 euro

Da 75 a 125 quote

Non prevista

Art. 256

comma 3 primo periodo

(discarica non autorizzata)

pena dell’arresto da 3 mesi a 1 anno

e

con l’ammenda da 1300 euro a

13000 euro.

Da 75 a 125 quote

Non prevista

Art. 256

comma 3 secondo periodo

(discarica finalizzata smaltimento rifiuti pericolosi)

arresto da 6 mesi  a 1 anno e mezzo

e

dell’ammenda da euro 2600 a

euro 26000

Da 100 a 150 quote

Si applicano le sanzioni interdittive previste dall’art. 9 comma 2 Dlgs. 231/2001 per una durata non superiore a 3 mesi

 
Si ricorda che la sanzione amministrativa prevista dall’art. 10 del Dlgs. 231/2001 indica un particolare sistema di calcolo della sanzione: “…2.  La  sanzione  pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento ne’ superiore a mille.   3.L’importo di una quota va da un minimo di lire cinquecentomila ad un massimo di lire tre milioni.”
Ovvero da un minimo di 250 Euro a 1500 Euro.
 
Si ricorda che le sanzioni interdittive descritte dall’art. 9 comma 2 Dlgs. 231/2001 sono:
a) interdizione dall’esercizio dell’attività;
b) sospensione  o revoca della autorizzazione, licenze, o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni e servizi.
 

adminReato ambientale: art. 256 comma 4
Leggi Tutto

Chi risponde del reato ambientale?

Cassazione pen. 1169/2011 – art. 256 comma 1 lett. a) Dlgs. 152/2006
Principio di corresponsabilità

A cura di avvocato Cinzia Silvestri

Il Tribunale di Lucera (Apricena) condannava il responsabile e socio accomandatario di una s.a.s., nella sua qualità, per il reato di cui all’art. 256 comma 1 lett. a) del Dlgs. 152/2006 in quanto“effettuava raccolta, smaltimento stoccaggio di rifiuti speciali non pericolosi misti provenienti da attività di rifacimento del manto stradale, contenenti scarti di cemento, bitume catramato e terriccio … in mancanza della prescritta autorizzazione….”.
Si badi che l’effettiva attività veniva compiuta da suo dipendente.
 
Il Tribunale invero attribuiva la responsabilità al socio accomandatario in quanto “l’attività medesima era riconducibile al prevenuto e non risultando provato che nell’ambito aziendale vi fosse stata una delega ad altri soggetti….”
 
Il Socio accomandatario impugnava la sentenza del Tribunale in quanto la condanna risulta fondata solo “sulla sua qualità di amministratore della s.a.s. non potendo essergli rimproverato alcun comportamento riconducibile all’illecito”.
 
La sentenza della Cassazione ha confermato la responsabilità del socio accomandatario richiamando il principio di corresponsabilita’ o responsabilità condivisa; principio già presente nel Dlgs. 22/97 agli articoli art. 2 e 10 poi trasfuso negli articoli 178 comma 3 e 188 Dlgs. 152/2006 ed oggi presente, secondo tale sentenza, negli articoli 178 comma 1 e 188 comma 1 Dlgs. 152/2006 come riformato dal Dlgs. 205/2010).
 
Il principio di corresponsabilità ha carattere estensivo della responsabilità; e ciò nel senso che estende la punibilità anche a soggetti che pur non avendo commesso o contribuito a commettere il fatto restano legati all’illecito.
L’esigenza di questa estensione risiede nella particolare delicatezza del sistema ambiente e nella necessità di attuare una catena di controlli pressante tra i vari soggetti uniti dalla filiera.
Il principio di corresponsabilità si è ben espresso, ed è stato accettato anche nella sua applicazione, che sconfina nella responsabilità oggettiva, proprio nel viaggio del rifiuto e nel sistema cartaceo che individua la filiera di soggetti (produttore, trasportatore, destinatario).
La Cassazione però non precisa che tale sistema confligge con il principio della responsabilità personale; principio dogma del sistema penale.
Nessuno può essere punito se non abbia operato con colpevolezza (dolo/colpa).
Non si può attribuire una responsabilità tanto più penale in forza solo di una qualifica ricoperta, mansione o altro laddove non esista e non sia provata una precisa responsabilità del soggetto agente.
Per lungo tempo la giurisprudenza penale ha rifiutato l’applicazione del principio di corresponsabilità alle fattispecie penali in quanto sconfinava nella responsabilità oggettiva.
Attribuire una responsabilità solo in quanto collegato dalla filiera/viaggio/rifiuto configura una oggettiva responsabilità invisa al sistema penale della responsabilità personale e colpevole.
 
Ebbene, la sentenza in commento sembra recuperare quel filone giurisprudenziale che invece riteneva possibile tale applicazione.
Appare tuttavia un po’ frettolosa la conclusione che anche il TUA ambientale – riformato dal Dlgs. 205/2010 che ha completamente riformulato sia l’art. 178 che l’art. 188 –ribadisca per esteso tale corresponsabilità.
 
Vero è che la Cassazione, pur richiamando il principio di corresponsabilità, cita poi sentenze e ne richiama il contenuto, che imputano responsabilità non certo in via oggettiva ma in quanto riconoscono esistere un comportamento omissivo per violazione dei doveri di diligenza (Cass. pen. 47432/2003);  omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta di abbandono (Cass. pen. 2473/2007).
 
Conclude dunque la Cassazione che il socio accomandatario è responsabile in quanto “ non risultando …. avesse delegato ad altri ogni responsabilità in relazione allo svolgimento di quell’attività non avesse adottato tutte le misure necessarie per evitare l’illecito di cui alla contestazione …”.
 
A dire il vero la conclusione di responsabilità della Corte sembra ben lontana dalla applicazione del principio di corresponsabilità ed anzi si allinea, nel concreto, alla necessaria valutazione di responsabilità sotto il  profilo soggettivo ed in relazione al caso in esame.
La sentenza dunque desta qualche perplessità e  qualche ragionevole dubbio nel suo percorso logico ….
 

adminChi risponde del reato ambientale?
Leggi Tutto

Focus Sicurezza: RSPP

A cura di avv. Cinzia Silvestri e dott. Dario Giardi

 
E’ utile a volte richiamare alla memoria ciò che ci sembra già di conoscere.
 
Il «responsabile del servizio di prevenzione e protezione» è la persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali indicati dall’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi.
L’ «addetto al servizio di prevenzione e protezione» è invece la persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32, facente parte del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.



Servizio di prevenzione e protezione

Servizio di prevenzione e protezione (art. 31)
 
commi 1 e 2 riprendono sostanzialmente le previsioni già presenti nel D.Lgs 626/94 e, in particolare, i requisiti degli addetti e del responsabile del SPP introdotti con il D.Lgs n. 195/2003, con la novità rappresentata dalla possibilità che il Servizio esterno può ora essere costituito anche presso le associazioni dei datori di lavoro o gli organismi paritetici. Inoltre, relativamente all’ipotesi di costituzione di un SPP interno,  non viene ripetuto l’inciso “da lui dipendenti”,  contenuto nell’art. 8, comma 2, del  D.Lgs 626/94, con la conseguenza che le persone designate per l’espletamento dei compiti di addetto o responsabile del servizio  non devono essere necessariamente lavoratori subordinati. L’obbligo di consultazione del RLS, nel caso previsto dal comma 4 in cui si debba ricorrere a persone o servizi esterni in assenza, all’interno, di persone in possesso dei requisiti richiesti dall’art. 32, è ora inserito nell’art. 50, comma 1, lett. c). Non trova conferma e risulta pertanto venuto meno, per il  datore di lavoro, l’obbligo, in precedenza previsto dall’art 8, comma 11, del D.Lgs 626/94, di comunicare al servizio ispezione del lavoro e alle unità sanitarie locali il nominativo del RSPP. Nel comma 6 – relativo alle ipotesi (in precedenza disciplinate dall’art. 8, comma 5) in cui è obbligatoria l’istituzione del SPP all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva – il termine “dipendenti” risulta sostituito dal termine “lavoratori”, con la conseguenza che, ai fini della determinazione della dimensione aziendale menzionata nei punti e), f) e g), vanno computati anche i soggetti occupati con rapporto diverso dal lavoro subordinato. Il successivo comma 7 dispone che, nelle ipotesi  di cui al precedente comma 6, il Responsabile del SPP deve essere interno. Ne discende che, stante la previsione del precedente comma 4, ove l’azienda non disponga al proprio interno di un soggetto in possesso di capacità adeguate, se ne dovrà dotare, integrando il proprio organico. Vista la definizione ampia di lavoratore, è da ritenere che l’impresa possa ricorrere ad una qualsiasi forma contrattuale. Infine, trova conferma nel comma 8 la possibilità di istituire un unico SPP nelle aziende con più unità produttive e nei casi di gruppi di imprese.

Capacità e requisiti professionali degli addetti e dei responsabili dei servizi di prevenzione e protezione interni ed esterni (art. 32)

Il comma 2 introduce requisiti ulteriori per il responsabile del SPP e richiama i contenuti indicati dall’accordo Stato-regioni del 26 gennaio 2006, attuativo del comma 2 dell’art. 8 bis del  D.Lgs 626/94. Da notare i riferimenti a specifici corsi di formazione in materia di protezione dei rischi di natura ergonomica e da stress lavoro-correlato di cui all’art. 2. Quest’ultima previsione consegue allo specifico inserimento, tra i rischi da valutare, di quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004. Il comma 3 fa espressamente salva la previsione dell’art. 3 del D.Lgs n. 195/2003 relativo alla abilitazione alle  funzioni di responsabile o addetto di coloro che, pur essendo privi del titolo di studio richiesto, dimostrino di aver svolto le stesse funzioni, professionalmente o alle dipendenze di un datore di lavoro, almeno da sei mesi alla data del 13 agosto 2003. L’esercizio della funzione di RSPP viene tuttavia condizionato alla previa frequenza di uno dei corsi previsti dall’accordo Stato regioni richiamato al comma 2. Il comma 7 dispone la registrazione dello svolgimento delle attività di formazione da parte dei componenti del servizio interno, nel libretto formativo del cittadino di cui all’articolo 2, comma 1, lettera i), del D.Lgs. n. 276/2003. Si tratta di una disposizione innovativa, finalizzata a dare evidenza, nel curriculum professionale e formativo del lavoratore, della frequenza dei corsi in materia di protezione e prevenzione.
 
Svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione e protezione dai rischi (art. 34)
 
Il  comma 1 conferma la possibilità che, nelle ipotesi previste nell’allegato 2 , il datore di lavoro possa svolgere, insieme ai compiti propri del SPP, di prevenzione incendi e di evacuazione, anche le funzioni di primo soccorso. Il comma 2 pone a carico del datore di lavoro che intende svolgere personalmente le funzioni indicate nel comma 1, l’obbligo di  frequentare appositi corsi di formazione di durata minima di 16 ore e massima di 48 ore. Per il contenuto della formazione si fa rinvio ad un accordo della Conferenza Stato-regioni che dovrà intervenire entro un anno dall’entrata in vigore del TU. Durante tale periodo, conserva validità la formazione conseguita attraverso la frequenza dei corsi, ai sensi dell’articolo 3 del DM 16 gennaio 1997. La stessa disposizione non conferma e deve, pertanto, ritenersi venuto meno l’obbligo per il datore di lavoro interessato  di provvedere alle comunicazioni, in precedenza previste dall’art. 10, comma 2, del D.Lgs 626/94, nei confronti dell’organo di vigilanza.   Infine, il comma 3 pone a carico dello stesso datore di lavoro interessato un nuovo obbligo di frequenza di corsi di aggiornamento. Si tratta di una previsione di portata generale riferibile  anche ai datori di lavoro che hanno frequentato i corsi previsti dal DM 16 gennaio 1997, nonché a quelli che, sia pure fino al 31 dicembre 1996, erano esonerati a norma dell’art. 95 del  D.Lgs 626/94.
 
Con il decreto 106 viene introdotto un comma aggiuntivo che prevede nelle aziende o unità produttive sino a 5 lavoratori la possibilità per il datore di lavoro di svolgere direttamente i compiti di primo soccorso e prevenzione incendi anche nel caso in cui il datore di lavoro abbia affidato l’incarico di RSPP a persone interne o a servizi esterni, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
 
Il tal caso il datore di lavoro dovrà frequentare gli specifici corsi di formazione di pronto soccorso e prevenzione incendi.
 

adminFocus Sicurezza: RSPP
Leggi Tutto

SISTRI: facciamo il punto

A cura di avv. Cinzia Silvestri e dott. Dario Giardi

 


 

Il Dlgs 152/2006 (cd. “Codice ambientale”) prevede, al suo articolo 189, comma 3-bis la “istituzione di un sistema informatico di controllo della tracciabilità dei rifiuti, ai fini della trasmissione e raccolta di informazioni su produzione, detenzione, trasporto e smaltimento di rifiuti e la realizzazione in formato elettronico del formulario di identificazione dei rifiuti, dei registri di carico e scarico e del Mud, da stabilirsi con apposito decreto del Ministro dell’ambiente”.
A tale prescrizione è stata data attuazione mediante il Dm MinAmbiente 17 dicembre 2009 che ha dettato le norme relative al funzionamento del “sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti” meglio noto con l’acronimo “Sistri”.
Il Sistri obbliga i soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti speciali a trasmettere in via telematica ad un sistema informatico centrale tutte le informazioni relative alle operazioni svolte ed a tracciare il trasporto dei beni a fine vita mediante l’adozione di un sistema di rilevamento satellitare.
Il Dm Ambiente 17 dicembre 2009 è stato a stretto giro modificato ed integrato dalle norme recate dal successivo Dm MinAmbiente 15 febbraio 2010, e ciò sia per prorogare i termini troppo stretti entro cui gli operatore del settore dovevano aderire al sistema, sia per introdurre degli “aggiustamenti” al nuovo meccanismo in partenza.
Alla luce delle novità intervenute, il calendario degli adempimenti che interessa gli operatori del settore individuati dalla normativa in parola è il seguente:
a) adesione al Sistri:
1. entro il 30 marzo 2010 per i soggetti ex articolo 1, c. 1, lett. a) del Dm 17 dicembre 2009;
2. dal 15 marzo 2010 al 29 aprile 2010 per i soggetti ex articolo 1, c. 1, lett. b) del Dm 17 dicembre 2009;
3. dal 12 agosto 2010, per i soggetti, con iscrizione su base volontaria ex articolo 1, c.4 del Dm 17 dicembre 2009;
b) Adempimento obblighi “operativi”:
dal 13 luglio 2010, per i soggetti sub 1;
dal 12 agosto 2010, per i soggetti sub 2;
dal 12 agosto 2010, per i soggetti sub 3.
 

adminSISTRI: facciamo il punto
Leggi Tutto

SOTTOPRODOTTO E TERRE E ROCCE DA SCAVO

avv.  Cinzia Silvestri del foro di Venezia, giurista ambientale
E’ necessario chiarire, brevemente, il significato di “sottoprodotto” senza sconfinare in complessi sofismi giuridici e rendendo comprensibile anche all’operatore/impresa la valenza giuridica di questo bene.
1) SOTTOPRODOTTO
Bisogna ricordare che il sottoprodotto nasce dalla elaborazione giurisprudenziale  a livello comunitario. Molte sono le sentenze[1] che la Corte Europea di Giustizia ha emesso  occupandosi del “sottoprodotto” e coniando, dunque, il termine che oggi è diventato di uso comune. La Corte di Giustizia affrontava, caso per caso, la qualificazione giuridica di ciò che residuava dal processo di produzione. Ed invero si consideri che il processo di produzione può creare un prodotto ma anche un residuo di produzione e che questo residuo di produzione può essere a sua volta rifiuto ma anche “non rifiuto” meglio identificabile come “sottoprodotto”.
2) RIFIUTO
La Comunità Europea è sempre stata rigorosa nell’indicare che un bene è o non è rifiuto. Non esistono sfumature alla definizione di rifiuto ed anzi è necessario interpretare le norme nel senso di ampliare il novero dei beni ricadenti nella nozione di rifiuto. Classificare come rifiuto un certo bene significa anche sottoporlo al controllo di legge e, dunque, applicare una maggiore tutela ambientale. L’importante è comprendere che la finalità della Corte di Giustizia Europea, che si è espressa a mezzo di numerose sentenze, è sempre stata quella di accertare l’esistenza o meno del rifiuto. E’ necessario infatti comprendere che tutto parte dalla nozione di rifiuto.
3) COME SI IDENTIFICA UN RIFIUTO? Non è possibile in questa sede fornire esauriente risposta a tale quesito; risposta che  presenta una certa complessità. Tuttavia è possibile semplificare. Si consideri che la Direttiva 2006/12/CE[2] all’ art. 1 lett. a) definisce il rifiuto come qualsiasi sostanza od oggetto che rientri: 1) nelle categorie riportate nell’allegato I; 2) di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di DISFARSI. Con chiarezza e metodo il legislatore Europeo indica dapprima la necessità di verificare se, ad esempio, quel determinato bene è incluso nell’allegato I (Q) (elemento OGGETTIVO) e, successivamente, indica la necessità di  verificare se il soggetto agente vuole o meno DISFARSI di quel bene (elemento SOGGETTIVO). E’ intuitivo che l’accertamento della volontà o meno del “disfarsi” è di particolare complessità e deve rapportarsi con infinite variabili e con la quotidianità commerciale e produttiva sempre più evoluta. Si precisa che la codificazione della nozione di rifiuto in sede Comunitaria è accolta nella legislazione italiana (art. 183 comma 1 lett. a) D.Lgs. 152/2006 ss.m. ) che prevede a sua volta la verifica dell’elemento oggettivo (allegato A parte IV) e la verifica dell’elemento soggettivo (“..si disfi abbia deciso di disfarsi o abbia l’obbligo di disfarsi..”).
4) NUOVA DIRETTIVA RIFIUTI 2008/98/CE (Gazz. Uff. UE 22.11.2008)
a) RIFIUTO
E’ utile uno sguardo al prossimo imminente futuro. E’ stata pubblicata la nuova direttiva sui rifiuti (2008/98/CE) che andrà a sostituire ed abrogare la Direttiva 2006/12/CE, si badi, con effetto dal 12.12.2010 (art. 41 Direttiva). Tuttavia a partire dal 12.12.2008 la Direttiva 2006/12/CE trova applicazione pur con alcune modifiche indicate all’art. 41 lett. c) della Direttiva 2008/98/CE. Gli stati membri dunque nei prossimi due anni sono tenuti ad adeguare le proprie normative alla nuova direttiva.Ebbene la nuova direttiva introduce importanti novità che costringeranno anche il legislatore italiano ad una revisione della propria legislazione. Importante elemento di novità è certo la nuova definizione di rifiuto che si concentra, si badi, solo sull’elemento soggettivo (disfarsi). L’allegato I (Q) non esiste più nella nuova direttiva[3] e, dunque, l’indagine che porta a definire un bene come rifiuto è circoscritta al concetto del “disfarsi”. b) SOTTOPRODOTTO
La nuova direttiva, inoltre, codifica la nozione di sottoprodotto all’articolo 5. La novità è di particolare importanza in quanto il legislatore Comunitario non aveva mai codificato tale nozione ed anzi aveva affermato – nella “Comunicazione interpretativa della Commissione al Consiglio e Parlamento Europeo del 21.2.2007 – di preferire l’indicazione di “linee guida” piuttosto che la codificazione di “sottoprodotto” tramite apposita Direttiva. Le “linee guida” permettono, invero, una maggiore elasticità nella valutazione del caso concreto. Vero è che anche in sede Comunitaria si avvertiva l’esigenza di fornire maggiori precisazioni del concetto di sottoprodotto (non rifiuto) anche in forza della legislazione degli stati membri (Italia) che provvedevano invece alla codificazione puntuale di tale concetto. Ebbene l’indagine sulla natura o meno di rifiuto di un certo bene, espressa dapprima tramite l’accertamento concreto delle sentenze, approdava nelle “linee guida” per la individuazione del  sottoprodotto (21.2.2007) e conclude il suo percorso con la codificazione dell’art. 5 Direttiva 2008/98/CE.Ne discende che la formulazione nazionale del concetto di sottoprodotto ex art. 183 co. 1 lett. p) D.Lgs. n. 152/2006 ss.m. dovrà confrontarsi proprio con la definizione di cui all’art. 5 Direttiva 2008/98/CE.
5) ACCERTAMENTO NATURA DI SOTTOPRODOTTO
Come accertare se un bene è un sottoprodotto? Non bisogna dimenticare che l’indagine giurisprudenziale della Corte di Giustizia Europea mirava ad identificare gli elementi che concretavano la condotta del NON DISFARSI (sottoprodotto)[4]. L’indagine si estendeva, ad esempio, alla valutazione del ciclo di produzione, al tipo di bene, all’eventuale riutilizzo, alla commercializzazione, alla esistenza o meno di contratti tra diverse aziende, alla esistenza o meno di un processo di trasformazione del bene nel corso del ciclo di produzione. La realtà operativa e di produzione veniva sezionata al fine di verificare la esistenza di elementi in grado di indicare la volontà di disfarsi o meno del bene. Tutti gli  elementi, raccolti e valutati nella loro complessità, permettevano di statuire sulla natura del bene. Ebbene la giurisprudenza comunitaria, nell’affrontare i casi singoli,  ha permesso di evidenziare gli elementi/presupposti spesso ricorrenti; elementi che sono stati, appunto, “codificati”. Si pensi ai presupposti, ormai noti, che caratterizzano la nozione di sottoprodotto quali: 1) certezza del riutilizzo; 2) senza trasformazioni preliminari; 3) nel corso del processo di produzione. La presenza di tali elementi, infatti, fornisce lacertezza/elevata probabilità che non esiste la volontà/intenzione del disfarsi e, dunque, rileva la coincidenza tra sottoprodotto e non rifiuto (quale residuo di produzione). Il sottoprodotto[5], dunque, indica l’insieme di elementi che, dopo attenta analisi di tutto il processo produttivo, concretano il NON rifiuto, si badi, sin dall’origine[6].
6) LEGISLAZIONE ITALIANA E DIRETTIVA COMUNITARIA
E’ utile indagare, brevemente, sulla legislazione italiana che ha speso molte energie nel tentativo di codificare al meglio il concetto di sottoprodotto. a) Legislazione italiana. La prima codificazione a livello legislativo appare con l’art. 183 comma 1 lett. n) del D.Lgs. 152/2006 (in vigore dal 29.4.2006 al 12.2.2008). Prima di questo articolo il concetto di sottoprodotto (non rifiuto) era già presente nella legislazione speciale L. n. 443/2001 ss.m. e nella interpretazione autentica di rifiuto di cui all’art. 14 D.L. n. 138/2002. La prima stesura appare complessa e ridondante nel tentativo di codificare ed esprimere anche il dettato comunitario per sua natura così elastico.Ebbene il D.Lgs. n. 4/08 (in vigore dal 13.2.2008) provvede a riformare l’art. 183 comma 1 ed inserisce la lettera  p) che alleggerisce e semplifica il testo precedente e codifica quegli indicatori che, se presenti nella realtà produttiva, indicano che quel bene “non è rifiuto”.b) legislazione comunitaria Mentre il legislatore italiano, senza esserne richiesto, codifica il concetto di sottoprodotto il legislatore comunitario tace ed evita ogni definizione limitandosi a fornire delle “linee guida” (21.2.2007) che per loro natura sono elastiche e possono essere arricchite di contenuti. La nuova Direttiva 2008/98/CE codifica il concetto di sottoprodotto e impone dunque la verifica della compatibilità di quanto legiferato in sede nazionale e concede due anni di tempo per eventuali modifiche e adeguamenti della legislazione nazionale al dettato delle Comunità Europee.Tale precisazione ha l’utilità di evidenziare, anche cronologicamente, la diversa evoluzione e la nascita del concetto di sottoprodotto in sede Comunitaria ed in sede nazionale.
7) TERRE E ROCCE DA SCAVO
In questo quadro di riferimento si pone il collegamento con la disciplina delle terre e rocce da scavo. Il D.Lgs. n. 4/08 (in vigore dal 13.2.2008), come sopra rilevato, ha introdotto importanti modifiche ed integrazioni alla disciplina del sottoprodotto (art. 183 comma 1 lett. p)) ma anche delle terre e rocce da scavo (art. 186). Limitando l’indagine a ciò che è ora vigente si rileva che l’articolo 186 contiene al comma 1 esplicito richiamo al sottoprodotto[7] (“… ottenuti quali sottoprodotti…”). La presenza di tale richiamo impone la lettura in combinato disposto dei due articoli (183 e 186). Ebbene, si nota che l’art. 186 nel richiamare il concetto di sottoprodotto non si sovrappone completamente ed anzi: 1) integra e specifica la nozione stessa di sottoprodotto; 2) adatta la nozione di sottoprodotto al caso “terre e rocce”; 3) aggiunge ulteriori elementi di specificazione necessari per l’ esclusione delle terre e rocce dalla normativa sui rifiuti. Si deve concludere, infatti, pur esistendo l’ esplicito richiamo all’art. 183, che esistono sostanziali differenze ed integrazioni. Se si dovesse visualizzare il rapporto tra le due norme è possibile immaginare due cerchi di diverse dimensioni in cui il cerchio dell’art. 186 include per intero il cerchio dell’art. 183.Si badi, inoltre, che il legislatore non si è limitato al mero richiamo dell’art. 183 comma 1 lett. p,) che di per sé sarebbe sufficiente ad escludere il bene dalla normativa sui rifiuti, ma ha scelto altra tecnica legislativa anche letterale, certo più complessa, che descrive e riporta in parte nell’articolo 186 proprio i contenuti dell’art. 183.L’importanza della comprensione del testo di cui all’art. 186 comma 1 è evidente. Per poter applicare l’art. 186: a) devono esistere tutti i requisiti indicati alle lett. da a)g) del comma 1; b) la presenza di tutti i requisiti di cui al comma 1 è presupposto per l’applicazione di tutti i restanti commi dell’art. 186. Se manca la presenza anche di un solo requisito indicato nell’art. 186 comma 1 non è possibile applicare l’art. 186 e, dunque, è necessario applicare la normativa sui rifiuti (come ben precisato al comma 5 dell’art. 186).Utile a questo proposito è la visione in confronto offerta nel successivo schema degli articoli 183 comma 1 lett. p) e art. 186 comma 1 come riformati dal D.Lgs. n. 4/08.
CONCLUSIONI
Questa breve disamina è offerta con l’intento di chiarire e semplificare concetti di estrema complessità che hanno portato spesso confusione applicativa proprio per la difficoltà di un approccio semplice. Ciò che è importante ricordare è che il sottoprodotto è un “non rifiuto sin dall’origine” e che il richiamo operato dall’art. 186 obbliga all’accertamento dei presupposti di cui all’art. 183 comma 1 lett. p) ma non è da solo sufficiente alla applicazione dell’art. 186.Giova precisare che la nuova Direttiva 2008/98/CE e la definizione di sottoprodotto impone la valutazione anche del testo dell’art. 186 co. 1 oggi vigente e la sua compatibilità con la statuizione Comunitaria.

SOTTOPRODOTTO – TERRE E ROCCE DA SCAVO SCHEMA DI CONFRONTO A CURA DELL’AVVOCATO CINZIA SILVESTRI del foro di Venezia
Art. 183 comma 1 lett. p)come riformato dal D.Lgs. n. 4/08 (in vigore dal 13.2.2008) Art. 186 comma 1come riformato dal D.Lgs. n. 4/08 (in vigore dal 13.2.2008)
p) sottoprodotto: sono sottoprodotti le sostanze ed i materiali dei quali il produttore non intende disfarsi ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), che soddisfino tutti i seguenti criteri, requisiti e condizioni; 1. Le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ottenute quali sottoprodotti, possono essere utilizzate per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati purché:
1) siano originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione; a) siano impiegate direttamente nell’ambito di opere o interventi preventivamente individuati e definiti;
2) il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito b) sin dalla fase della produzione vi sia certezza dell’integrale utilizzo;
3) soddisfino requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l’impianto dove sono destinati ad essere utilizzati c) l’utilizzo integrale della parte destinata a riutilizzo sia tecnicamente possibile senza necessità di preventivo trattamento o di trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e, più in generale, ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli ordinariamente consentiti ed autorizzati per il sito dove sono destinate ad essere utilizzate;
:;; 4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione d) sia garantito un elevato livello di tutela ambientale;
5) abbiano un valore economico di mercato. e) sia accertato che non provengono da siti contaminati o sottoposti ad interventi di bonifica ai sensi del titolo V della parte quarta del presente decreto;
f) le loro caratteristiche chimiche e chimico-fisiche siano tali che il loro impiego nel sito prescelto non determini rischi per la salute e per la qualità delle matrici ambientali interessate ed avvenga nel rispetto delle norme di tutela delle acque superficiali e sotterranee, della flora, della fauna, degli habitat e delle aree naturali protette. In particolare deve essere dimostrato che il materiale da utilizzare non è contaminato con riferimento alla destinazione d’uso del medesimo, nonché la compatibilità di detto materiale con il sito di destinazione;
g) la certezza del loro integrale utilizzo sia dimostrata. L’impiego di terre da scavo nei processi industriali come sottoprodotti, in sostituzione dei materiali di cava, è consentito nel rispetto delle condizioni fissate all’articolo 183, comma 1, lettera p).


[1] Palin Granit Oy 18.4.2002, C-900; Niselli 11.11.2004 C- 457/02; Avesta Polarit 11.9.2003 C 114/01; le ordinanze Saetti Frediani (petcoke) e altre.
[2] Direttiva 2006/12/CE ha abrogato la precedente Direttiva 75/442/CEE.
[3] La nuova direttiva prevede come allegato I le attività di smaltimento (D).
[4] La condotta del disfarsi attribuisce la natura di rifiuto al bene mentre solo in caso di condotta inversa (non disfarsi) si è in presenza di non rifiuto – sottoprodotto.
[5]E’ dunque termine convenzionale utilizzato dalla giurisprudenza comunitaria
[6] Il sottoprodotto, si precisa, non è una sottocategoria di rifiuto bensì è ciò che non è rifiuto sin dall’origine. Ne discende, per quanto possa sembrare particolare questa affermazione, che non esiste un elenco dei sottoprodotti simile a quello, per intenderci,  del CER .
[7] L’articolo 186 è stato completamente ricritto dal D.Lgs. n. 4/08 e nella versione precedente l’articolo 186 si esprimeva col termine “.. non sono rifiuti…”.

 

adminSOTTOPRODOTTO E TERRE E ROCCE DA SCAVO
Leggi Tutto