Contratto assicurativo e sanzioni amministrative

Contratto assicurativo e sanzioni amministrative

Studio Legale Ambiente e Ambientale - avv. Cinzia SilvestriContratto assicurativo e sanzioni amministrative

Cass. civ. 28967/2025

segnalazione a cura StudioLegaleAmbiente – avv. Cinzia Silvestri


Copertura assicurativa e sanzioni amministrative, questo è il problema.

La sentenza della cassazione richiama uno specifico riferimento normativo dell’articolo 12 del decreto legislativo 209 del 2005 in riferimento ad una sanzione amministrativa irrogata dalla Consob. La cassazione è precisa nell’affermare che è esclusa la possibilità di trasferire l’onere della sanzione amministrativa su altri soggetti anche con polizza proprio perché questo andrebbe a togliere la deterrenza della sanzione amministrativa. Nel caso in esame esiste disposizione legislativa in merito. Ci si chiede se anche nel campo delle sanzioni amministrative ambientali possa valere il medesimo principio.

La sentenza così si esprime sul punto:

4.1. La gravata sentenza ha considerato sinistro indennizzabile la sanzione amministrativa irrogata da Consob al A.A. per atti compiuti quale membro del Consiglio di amministrazione della banca vicentina, sul rilievo che l’art. 2.25. della polizza escludesse dalla copertura assicurativa le sanzioni penali pecuniarie, non quelle amministrative.

L’argomentazione non è conforme a diritto.

A mente dell’art. 12 del D.Lgs. n. 209 del 2005, “sono vietate… le assicurazioni che hanno per oggetto il trasferimento del rischio di pagamento delle sanzioni amministrative”.

La ratio della norma risiede nell’esigenza di preservare la funzione sanzionatoria-deterrente del provvedimento amministrativo, altrimenti vanificata da un contratto con il quale l’onere economico della sanzione venga trasferito su un soggetto diverso dall’autore dell’illecito.

La comminatoria di nullità dei contratti stipulati in violazione del divieto espressamente prevista dall’art. 12 in questione rappresenta, invero, specifica applicazione, nella settoriale materia disciplinata, della generale nullità per causa illecita contemplata dall’art. 1418 cod. civ.: sicché essa colpisce ogni negozio che realizzi il risultato proibito, ivi incluso un accordo di manleva che sollevi il manlevato dall’applicazione a suo carico di sanzioni amministrative.

Ha dunque errato il giudice territoriale nel ritenere la validità della manleva rilasciata da Cattolica al A.A. relativa alla sanzione Consob: né ad una diversa conclusione induce la posteriorità di detta manleva rispetto alla commissione dell’illecito amministrativo, dacché l’effetto prodotto risulta comunque quello (contrario alla norma imperativa) di neutralizzare per l’autore la sanzione irrogata.

Va, in conclusione, enunciato il seguente principio di diritto: “in tema di contratti assicurativi, è nullo ogni accordo (ancorché concluso dopo la commissione dell’illecito) che determini il trasferimento dell’onere economico del pagamento di una sanzione amministrativa su un soggetto diverso dall’autore dell’illecito”.

Cinzia SilvestriContratto assicurativo e sanzioni amministrative
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…A PROPOSITO DI ALLAGAMENTI

…A PROPOSITO DI ALLAGAMENTI

allagamenti…A PROPOSITO DI ALLAGAMENTI

ORDINANZA CASSAZIONE 21531/17

Segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


A PROPOSITO DI …ALLAGAMENTI.

Un condomino subisce allagamento della propria cantina e conseguente danno relativo a bottiglie pregiate e altri oggetti. L’allagamento della cantina, secondo il condomino, era dovuto al malfunzionamento e difetto dell’impianto fognario condominiale e dunque muove causa al condominio.

Il condomino perde in Tribunale e si rivolge alla Corte di appello e poi alla Cassazione.

Il risarcimento del danno non viene concesso, sostiene la Cassazione, perché la Corte d’Appello ha escluso il nesso causale tra il malfunzionamento dell’impianto fognario condominiale e l’allagamento delle cantine. La causa dell’allagamento è stata attribuita a una precipitazione meteorica eccezionale e imprevedibile, considerata un caso fortuito autonomamente sufficiente a determinare l’evento. Inoltre, il ricorrente non ha fornito argomentazioni o prove adeguate a dimostrare che le carenze dell’impianto fognario avrebbero potuto evitare o limitare i danni.

Questo punto, la prova, è dirimente e getta luce sulla realtà processuale ……..continua lettura articolo cantina allagata e risarcimento danno

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Cinzia Silvestri…A PROPOSITO DI ALLAGAMENTI
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Miteni – PFAS …in attesa della sentenza

Miteni – PFAS …in attesa della sentenza

sentenza MITENIMiteni – PFAS – in attesa della sentenza ...

segnalazione a cura StudiolegaleAmbiente – Cinzia Silvestri


Per ora conosciamo solo il dispositivo della sentenza e siamo in attesa delle motivazioni forse a settembre 2025. La vicenda della azienda Miteni è legata alla contaminazione nel Veneto dei PFAS ovvero di sostanze gravemente nocive per la salute. La situazione è complessa . Tuttavia si pubblica il dispositivo della sentenza, blerato dei nomi e dei riferimenti, che permette comunque di cogliere l’importanza degli importi, la molteplicità delle parti coinvolte, le numerose parti civili che hanno trovato soddisfazione, l’obbligo di ripristinare i luoghi e la responsabilità dell’ente ex Dlgs. 231/2001. E’ una fotografia di un processo destinato a creare precedenti; luogo dove ognuno ha portato il suo interesse e la sua storia. 

leggi dispositivo blerato sentenza-miteni-26.06.2025

Cinzia SilvestriMiteni – PFAS …in attesa della sentenza
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FALLIMENTO E RISARCIMENTO DANNO DA INQUINAMENTO

FALLIMENTO E RISARCIMENTO DANNO DA INQUINAMENTO

Fallimento e risarcimentoFallimento e risarcimento danno da inquinamento

Tribunale Milano n. 4771/2025

 Segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


La sentenza numero 4771/ 2025 del Tribunale di Milano è occasione per affrontare un tema poco dibattuto che pone in relazione il risarcimento del danno, che deriva da emissioni di polveri e il fallimento del soggetto che ha provocato le emissioni. La richiesta di risarcimento si interseca con la normativa “fallimentare” e deve fare i conti con limiti che in altri contesti non troverebbe. La vicenda, che trova soluzione nella sentenza, presenta dei caratteri di complessità, ma si distingue per essere categorica nell’escludere la responsabilità del “fallimento” che è ritenuto incolpevole ed escludere, dunque, anche la domanda di risarcimento del danno da inquinamento a carico del fallimento. In altri contesti, la giurisprudenza non è così precisa ed anzi spesso attrae nella responsabilità il proprietario facendolo l’uscire dalla zona d’ombra dell’incolpevolezza.

La sentenza sembra dire, con fermezza, che il soggetto che non gestisce ovvero non controlla l’attività che ha prodotto il danno da inquinamento è certamente incolpevole. L’applicazione del principio “chi inquina paga” e la ricerca dell’effettivo responsabile porta anche la inapplicabilità della responsabilità oggettiva che incombe su soggetto che ha la custodia dell’attività ed anche del soggetto esercita attività pericolose.

Il Tribunale rigetta la richiesta di insinuare nel fallimento il risarcimento del danno richiesto dalla proprietaria di un immobile per i danni ambientali subiti nel tempo a causa delle emissioni della acciaieria limitrofa.

In particolare: continua lettura articolo Fallimento e risarcimento del danno ambientale

Cinzia SilvestriFALLIMENTO E RISARCIMENTO DANNO DA INQUINAMENTO
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PFAS – rendita agli eredi

PFASPFAS – rendita agli eredi

Trib. Vicenza n. 251/2025

segnalazione a cura StudioLegaleAmbiente – Cinzia Silvestri


Il Tribunale di Vicenza riconosce una rendita agli eredi per la morte di loro parente a causa della protratta inalazione/contatto con i PFAS. PFAS – rendita agli eredi.

Ritorna il concetto di “probabilità” che fonda il riconoscimento della causalità tra l’evento e il danno. In questo caso parliamo di PFAS di cui si parla ma poco si comprende. E’ cronaca recente che tali composti sono stati trovati anche negli indumenti dei pompieri.

I PFAS  sono una famiglia di composti chimici artificiali caratterizzati dalla presenza di molteplici atomi di fluoro legati a una catena carboniosa. ​ Questi composti sono noti per la loro resistenza al calore, all’acqua e agli oli, e vengono utilizzati in numerosi processi industriali e prodotti di consumo, come rivestimenti antiaderenti, tessuti impermeabili, schiume antincendio e imballaggi alimentari.

La loro esposizione può avvenire attraverso l’inalazione, l’assorbimento cutaneo o l’ingestione di acqua e cibo contaminati. ​ Studi scientifici hanno evidenziato possibili effetti nocivi sulla salute, tra cui un aumento del rischio di alcune patologie, come tumori, problemi al sistema immunitario e disturbi ormonali. ​

IL CASO

Il fatto sotteso alla sentenza riguarda il riconoscimento del diritto alla rendita ai superstiti e all’assegno funerario per gli eredi di un lavoratore deceduto a causa di un carcinoma uroteliale papillare della pelvi renale. ​ Gli eredi sostenevano che la malattia fosse stata causata dall’esposizione professionale a sostanze perfluorurate (PFAS e PFOA) durante l’attività lavorativa svolta presso la M. ​ S.p.a. dal 1979 al 1992. ​

Il Tribunale di Vicenza ha accertato, con elevato grado di probabilità, il nesso di causalità tra l’esposizione a tali sostanze e la patologia che ha condotto al decesso, basandosi su prove testimoniali, documentali e perizie medico-legali. ​ Pertanto, ha condannato l’INAIL a costituire la rendita ai superstiti e a pagare i relativi ratei, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, riconoscendo il diritto degli eredi alle prestazioni previste dalla legge.

LA PROVA

L’esposizione a PFAS è stata dimostrata attraverso una combinazione di prove testimoniali, documentazione tecnica e perizie medico-legali. ​ In particolare:

  1. Testimonianze: I testimoni hanno dichiarato che Z.P. ​ lavorava nel reparto di neutralizzazione delle acque, adiacente al reparto di elettrofluorazione (ECF) dove venivano prodotti PFAS e PFOA. ​ I due reparti erano separati da una strada di circa 5 metri e si trovavano in un’area aperta, coperta da tettoie limitrofe. ​ Inoltre, le operazioni di pulizia dei reattori nel reparto ECF generavano una dispersione di fumi e sostanze nocive, che raggiungevano la postazione di Z.P., il quale lavorava senza dispositivi di protezione adeguati. ​
  2. Relazione tecnica: È stata presentata una relazione che evidenziava le concentrazioni di PFAS nel sangue dei dipendenti ed ex dipendenti della ditta M. ​ S.p.a., dimostrando una chiara esposizione a tali sostanze anche per lavoratori non direttamente coinvolti nella produzione. ​ Questo includeva Z.P., il cui reparto era collocato in prossimità di quello di produzione. ​
  3. Perizia medico-legale: Il consulente tecnico ha concluso che Z.P. era stato esposto a PFAS per tutto il periodo di lavoro (1979-1992) attraverso inalazione, assorbimento trans-cutaneo e ingestione di polveri contaminate. La vicinanza del reparto di Z.P. a quello di produzione e l’assenza di dispositivi di protezione hanno contribuito a questa esposizione. ​
  4. Produzione aziendale: La ditta M. S.p.a. aveva prodotto PFAS a catena lunga (PFOA e PFOS) fino al 2004, e le analisi ematiche dei dipendenti di quel periodo confermavano valori elevati di PFOA, compatibili con l’esposizione professionale. ​

Questi elementi hanno permesso al Tribunale di ritenere provata l’esposizione di Z.P. ai PFAS durante la sua attività lavorativa E DUNQUE DI CONCRETARE LA “PROBABILITA'” della esposizione causale.

Cinzia SilvestriPFAS – rendita agli eredi
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servizio idrico -pagamento canoni?

servizio idrico -pagamento canoni?

servizio idrico - pagamento canoni?Servizio idrico – pagamento canoni?

Cass. civ. ord. 15059/2025

segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


Se il servizio di depurazione non è effettivo e concreto perché, ad esempio, mancano i sistemi di depurazione, l’utente non è tenuto a pagare il canone con il servizio di depurazione inesistente. L’onere di provare che il sistema di depurazione è esistente incombe a carico del gestore del servizio. La giurisprudenza  in passato aveva invece sostenuto che tale canone è comunque dovuto anche in assenza del sistema depurativo.

IL CASO

Il fatto che ha dato origine alla sentenza: la richiesta di un utente di fornitura idrica residente a Napoli, di ottenere la restituzione dei canoni di depurazione pagati nonostante il depuratore fosse inefficiente e non svolgesse la sua funzione di depurazione delle acque reflue. ​ La domanda si basava sulla sentenza n. 335/2008 della Corte Costituzionale, che aveva dichiarato l’incostituzionalità delle norme che prevedevano il pagamento della tariffa di depurazione anche in assenza del servizio effettivo. ​ Nel giudizio sono intervenuti altri utenti con richieste analoghe, e sono stati chiamati in causa il Comune di Napoli, la Regione Campania e XXX CAMPANIA Spa. ​

LA DECISIONE

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dalla Società del Servizio Idrico integrato del COMUNE NAPOLI – AZIENDA SPECIALE contro la sentenza del Tribunale di Napoli .

La Cassazione ha confermato che la Società  è tenuta alla restituzione dei canoni di depurazione agli utenti, in quanto soggetto che ha incassato le somme senza fornire il servizio di depurazione. ​ Inoltre, ha ritenuto che il Tribunale abbia motivato correttamente la decisione, rispettando il “minimo costituzionale” richiesto per la motivazione delle sentenze. ​

La Corte ha anche dichiarato inammissibili alcuni motivi del ricorso per difetto di specificità e per la mancata dimostrazione che le questioni sollevate fossero state dedotte nei gradi di merito. ​ Infine, ha confermato che spettava alla società  ​ fornire la prova degli oneri relativi alla progettazione, realizzazione o completamento degli impianti di depurazione, trattandosi di un fatto impeditivo della pretesa restitutoria degli utenti. ​

Scrive la Cassazione:

Il Tribunale, considerato che la domanda svolta dall’attrice e dagli intervenuti afferiva a un contratto di utenza idrica, rispetto al quale unico titolare dal lato passivo era A.B.C. concessionaria del servizio idrico integrato, …..in base al principio della scomposizione della fattispecie ha ritenuto l’appellante tenuto, al fine di procedere allo scomputo dal credito restitutorio, all’onere della prova quanto agli oneri derivanti dalle attività di progettazione, realizzazione o completamento dell’impianto di depurazione, trattandosi di fatto impeditivo della pretesa restitutoria come peraltro enunciato da questa Corte già con la sentenza 12 giugno 2020, n. 11270, puntualmente richiamata in motivazione. Quanto detto dal Tribunale deve essere inteso nel significato che ragionevolmente può essere attribuito all’espressione usata, ossia non che A.B.C. fosse tenuta a provvedere agli oneri di progettazione, realizzazione o completamento dell’ impianto, ma alla prova del relativo ammontare onde provvedere allo scomputo da quanto oggetto di restituzione per effetto del non regolare funzionamento dell’ impianto, per essere a ciò tenuta in base al contratto di utenza idrica….”

La Cassazione ha condannato la società al pagamento delle spese processuali in favore dei controricorrenti. ​

Cinzia Silvestriservizio idrico -pagamento canoni?
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EMISSIONI NOCIVE – RISARCIMENTO DANNO

EMISSIONI NOCIVE – RISARCIMENTO DANNO

malformazioni e risarcimento dannoEmissioni nocive – risarcimento del danno

Cass. Civ. ord. 13294/2025 – “più probabile che non”

Segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


La Cassazione civile ha affrontato il tema del risarcimento del danno causato da inquinamento e il problema della ricerca della causalità. La decisione fa discutere perché pone al centro del processo la valutazione del consulente tecnico d’ufficio che evoca il concetto di “possibilità” causale tra le emissioni e le malformazioni congenite e dunque esclude il concetto di “probabilità” che disciplina l’ambito civilistico e permette il risarcimento del danno.

Il percorso si conclude con un esito negativo per  le persone-attrici che hanno denunciato la relazione tra le emissioni nocive industriali subite e le malformazioni congenite riscontrate ed anzi sono state, pure in prima battuta, condannate al pagamento delle spese processuali.

Il caso giudiziario: EMISSIONI NOCIVE – RISARCIMENTO DANNO

Il caso riguarda la richiesta di risarcimento danni da parte di A.A., affiancato dai suoi congiunti, contro Raffineria XX Spa e XX Attività Diversificate Spa (Enichem Spa), per presunte malformazioni congenite (ipo-agenesia traversa arto superiore sinistro) attribuite alle emissioni nocive degli stabilimenti industriali. ​

Sentenza di primo grado (2018)

Il Tribunale ha rigettato le domande attoree, ritenendo non provato il nesso causale tra le malformazioni e le immissioni ambientali. ​ La consulenza tecnica d’ufficio (CTU) ha evidenziato solo una correlazione “possibile” e non “probabile” tra le sostanze nocive e la patologia. ​…continua lettura articolo immissioni nocive e “più probabile che non”…

Cinzia SilvestriEMISSIONI NOCIVE – RISARCIMENTO DANNO
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Infortunio lavoro – deleghe CDA

infortunio sul lavoro e deleghe CDAInfortunio lavoro – deleghe CDA

Delega gestoria o di funzioni – differenze

segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


Infortunio lavoro – deleghe CDA. La delega di funzioni in materia ambientale apprende e traduce ed anzi adatta ciò che la normativa e la giurisprudenza in materia di sicurezza sul lavoro, produce. La sentenza della Cassazione, nell’ambito di un complesso infortunio sul lavoro, cesella la differenza tra delega gestoria coniata dal diritto societario ex art. 2381 c.c. e la delega di funzioni contemplata all’art. 16 Dlgs. 81/2008.

Leggi anche articolo su amministratori senza delega in questo sito.

Senza entrare nel merito della complessa vicenda trattata dalla Cassazione 40682/2024 , ciò che rileva è che vengono imputate responsabilità ai soggetti che appartengono al consiglio di amministrazione (CDA) muniti peraltro di rispettive deleghe di funzioni. La cassazione afferma che sebbene fossero presenti deleghe gestorie (societarie) e di funzioni (sicurezza sul lavoro), l’evento è stato causato dalla concretizzazione di difetti strutturali e di carenze organizzative aziendale imputabili al consiglio di amministrazione nel suo complesso. I membri del consiglio avevano il dovere di vigilanza e di controllo sulle questioni organizzative e sulla gestione del rischio che non è stato invece adeguatamente esercitato. In sintesi la responsabilità è stata attribuita non solo per la posizione rivestita dai membri al consiglio ma per il ruolo attivo, le omissioni della gestione e l’organizzazione aziendale che hanno contribuito direttamente all’Incidente occorso.

…….continua lettura articolo infortunio lavoro – deleghe CDA – note a Cassazione

Cinzia SilvestriInfortunio lavoro – deleghe CDA
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Significativo /misurabile: quale accertamento?

Significativo /misurabile: quale accertamento?

“Significativo” e “misurabile” Senza accertamento tecnico? Cass. pen. n. 12514/2025 Segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri Il caso: officina meccanica/oli esausti Il caso posto all’attenzione della Corte di Cassazione riguarda il reato di inquinamento ambientale ex art. 452-bis c.p., contestato ai ricorrenti, in relazione alla gestione irregolare di una officina meccanica. Gli imputati sono stati accusati di aver causato una compromissione significativa e misurabile di porzioni estese di suolo/ sottosuolo circostanti l’officina, attraverso il versamento di oli esausti di altri materiali inquinanti, per lungo tempo. La posizione degli imputati era inoltre aggravata dal fatto di aver continuato l’attività - con continuo versamento sul suolo di oli esausti - anche dopo il sequestro del sito. La sentenza La sentenza della Cassazione penale numero 12514/2025, permette alcune considerazioni interessanti in ordine al reato di inquinamento ambientale ai sensi dell’articolo 452-bis del Codice penale. Secondo la Cassazione, la prova dell’inquinamento non deve necessariamente essere verificata con accertamenti tecnici, perizie, per intenderci. La prova dell’inquinamento è possibile anche sulla base di evidenze macroscopiche o dati concreti che dimostrino però una compromissione o un deterioramento significativo e soprattutto misurabile delle matrici ambientali. La Cassazione, attenzione, non esclude che ci possa essere la necessità, in determinati casi, di verifiche tecniche precise ma sottolinea che possono verificarsi delle situazioni in cui non ci sia questa necessità. Sono casi in cui esiste una macroscopica evidenza. Ad esempio, nel caso di distruzione “Significativo” e “misurabile”: Senza accertamento tecnico?

Cass. pen. n. 12514/2025

Segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


Il caso: officina meccanica/oli esausti

Il caso posto all’attenzione della Corte di Cassazione riguarda il reato di inquinamento ambientale ex art. 452-bis c.p., contestato ai ricorrenti, in relazione alla gestione irregolare di una officina meccanica. Gli imputati sono stati accusati di aver causato una compromissione significativa e misurabile di porzioni estese di suolo/ sottosuolo circostanti l’officina, attraverso il versamento di oli esausti di altri materiali inquinanti, per lungo tempo. La posizione degli imputati era inoltre aggravata dal fatto di aver continuato l’attività – con continuo versamento sul suolo di oli esausti – anche dopo il sequestro del sito.

La sentenza

La sentenza della Cassazione penale numero 12514/2025, permette alcune considerazioni interessanti in ordine al reato di inquinamento ambientale ai sensi dell’articolo 452-bis del Codice penale.

Secondo la Cassazione, la prova dell’inquinamento non deve necessariamente essere verificata con accertamenti tecnici, perizie, per intenderci. La prova dell’inquinamento è possibile anche sulla base di evidenze macroscopiche o dati concreti che dimostrino però una compromissione o un deterioramento significativo e soprattutto misurabile delle matrici ambientali.

La Cassazione, attenzione, non esclude che ci possa essere la necessità, in determinati casi, di verifiche tecniche precise ma sottolinea che possono verificarsi delle situazioni in cui non ci sia questa necessità. Sono casi in cui esiste una macroscopica evidenza.

Ad esempio, nel caso di distruzione .…. continua lettura articolo commento cass-pen. 12514:2025

Cinzia SilvestriSignificativo /misurabile: quale accertamento?
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FALLIMENTO E RIMOZIONE RIFIUTI

FALLIMENTO E RIMOZIONE RIFIUTI

fallimento e rifiutiFALLIMENTO E RIMOZIONE RIFIUTI

obbligo di rimozione – Consiglio di Stato n. 1883/2025

segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


Fallimento e Rimozione Rifiuti. Il Consiglio di Stato ritorna sulla questione dell’obbligo della curatela fallimentare in merito alla rimozione dei rifiuti e riepiloga  i principi che sorreggono l’obbligo per la curatela di intervenire a rimuovere i rifiuti. La sentenza è interessante e permette un primo focus sul momento in cui il fallimento apprende, acquisisce e diviene detentore dei beni del fallito. Nel caso in esame invero la curatela rinunciava alla liquidazione di alcuni beni e sosteneva che tale rinuncia esentava la curatela anche dagli obblighi “pubblici” di rimozione dei rifiuti ordinati dalla pubblica amministrazione con ordinanza contingibile ed urgente.

Il Consiglio di Stato precisa il momento di acquisizione della detenzione, precisa l’ambito giuridico della rinuncia alla liquidazione, rinnova l’obbligo di rimozione dei rifiuti in capo alla curatela.

Scrive il CdS: “…Ad avviso della parte appellante, la decisione impugnata avrebbe errato nel ritenere applicabili, alla fattispecie in esame, i principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3/2021, non considerando che la Curatela fallimentare non avrebbe mai avuto la materiale disponibilità dei terreni di che trattasi in ragione della rinuncia effettuata ai sensi e per gli effetti dell’art. 104, ter comma 8, della Legge fallimentare, secondo cui “ Il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all’attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se l’attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente”.

Secondo il Collegio invero “…la detenzione dei beni del fallito è acquisita ipso iure dalla Curatela fallimentare al momento della pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento ai sensi dell’art. 133 co. 1 c.p.c…”.

Il Fallimento invece sostiene che la rinuncia della curatela alla liquidazione del bene esime da ogni responsabilità.

Rileva il Collegio che “siffatta “rinuncia”, anzitutto, postula, sul piano logico-giuridico, la previa disponibilità del bene in ragione proprio della sua inclusione nella massa fallimentare sin dall’apertura della procedura concorsuale, non essendo, all’evidenza, possibile rinunciare a qualcosa di cui non si abbia anche la previa disponibilità giuridica…Pertanto, la rinuncia in esame,..ha per oggetto non l’acquisizione ma la liquidazione del bene, posto che, diversamente opinando, l’ordinanza sarebbe nulla per inesistenza dell’oggetto, in ragione dell’impossibilità di rinunciare a qualcosa di cui non si abbia la disponibilità.

Precisa il Collegio: ” Esiste, infatti, una sostanziale differenza tra la rinuncia ad acquisire beni pervenuti al fallito in corso di procedura (art. 42 co. 2 e co. 3 L.F.) e l’autorizzazione a non acquisire all’attivo o a rinunciare a liquidare uno o più beni, se l’attività di liquidazione appaia manifestamente (art. 104 ter, comma 8 bis, L.F.), poiché mentre nel primo caso l’inclusione alla massa fallimentare è rimessa alla decisione del Curatore in quanto presupponente il compimento di un precipuo atto negoziale che, se omesso in ragione dell’anti-economicità dell’operazione sul piano delle prospettive di liquidazione, preclude il perfezionamento dell’acquisto, nel secondo caso, invece, è automatica, in quanto dipendente da un fatto giuridico in senso stretto, ossia la titolarità del bene già acquisita dal fallito prima della sentenza dichiarativa di fallimento, potendo il Curatore in questi casi soltanto decidere se includere o meno il bene nel programma di liquidazione.

La curatela dunque non si spoglia del bene e delle relative responsabilità anche in caso di obbligo di rimozione di rifiuti in proprietà della fallita.

Dunque, continua il Consiglio: “…Al ricorrere di tale ultima fattispecie, il bene continua a rimanere nella disponibilità giuridica della Curatela fallimentare, in quanto componente del patrimonio della società fallita e, come tale, anche foriero di responsabilità per eventuali danni a terzi ai sensi dell’art. 2051 c.c. La dichiarazione di fallimento, infatti, non realizza un fenomeno di tipo successorio, privando, soltanto, la società fallita della legittimazione a disporre dei propri beni, al fine di salvaguardare le ragioni dei suoi creditori secondo le regole concorsuali previste dalla legge. L’effetto, in pratica, è il medesimo di un pignoramento omnibus, ossia di un pignoramento di tutti i beni del debitore.

Il che, per quanto di rilievo nella fattispecie in esame, implica la configurabilità di un persistente obbligo di vigilanza sul bene non sottoposto alle attività di liquidazione per la tutela dei creditori fallimentari, onde evitare la possibile insinuazione al passivo di creditori sopravvenuti.

… poiché il fondo inquinato apparteneva alla società fallita, la Curatela ne è divenuta detentrice ipso iure…..Deve, dunque, alla luce delle considerazioni che precedono, trovare conferma il principio di diritto, formulato dalla citata decisione del CGARS, secondo cui la scelta della Curatela di non procedere alle attività di liquidazione di un bene non equivale ad un atto di abbandono del bene stesso, non potendo produrre l’effetto di estrometterlo dalla sfera giuridica del debitore che ne sia titolare….

Cinzia SilvestriFALLIMENTO E RIMOZIONE RIFIUTI
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A.I.A.: Titolare e ..Gestore

A.I.A.: Titolare e ..Gestore

A.I.A: titolare e ...gestore?A.I.A.: Titolare e …Gestore
Gestore e titolare della A.I.A. – Cass. pen. 9614/2014
a cura di Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


 La Cassazione penale n. 9614/2014 affronta il problema della responsabilità tra titolare della AIA e gestore effettivo dell’impianto (trattamento rifiuti). Accade spesso che il titolare della A.I.A. non sia l’effettivo gestore dell’impianto. La decisione è ancora attuale e individua il centro di imputazione delle responsabilità, salvi i dovuti distinguo.

Il CASO –A.I.A.: Titolare e …Gestore

Il caso trattato dalla Corte si riferisce alla violazione dell’art. 29 quattuordecies comma 2 Dlgs. 152/2006, violazioni di prescrizioni dell’autorizzazione, previgente al Dlgs. 46/2014 e dunque tale violazione configurava ancora il reato, la contravvenzione (oggi depenalizzato).
Il caso trattato dalla Cassazione vede una società consortile ed il presidente del CDA intestatari e titolari dell’AIA; società consortile che poi attribuiva la gestione ad altra società a mezzo di una concessione (contratto pubblico).Tuttavia si segnala le responsabilità tra gestore effettivo e titolare dell’autorizzazione non è netto e di facile individuazione. E’ necessario entrare nei singoli rapporti contrattuali .

La sentenza della Corte riporta in capo al titolare dell’AIA ogni  responsabilità.

RESPONSABILITA’ TITOLARE A.I.A.

A fronte della contestazione penale al titolare dell’AIA ovvero al suo presidente (società Consortile) l’imputato si difendeva ritenendo che la responsabilità doveva essere attribuita alla società di gestione il cui contratto di concessione trasferiva totalmente ogni responsabilità. 

La Cassazione ricorda  i diversi sistemi di imputazione di responsabilità in sede ambientale e precisa il motivo per il quale  il titolare della AIA è ritenuto il responsabile.

Brevemente:

La responsabilità del titolare dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) si definisce come l’obbligo di assicurare che tutte le prescrizioni imposte dall’autorizzazione siano rispettate. ​ Questo include la verifica e il controllo continuo delle attività svolte nell’impianto, anche se la gestione operativa è affidata a un’altra entità. ​

Nel caso specifico, la Corte ha stabilito che il titolare dell’AIA, ovvero l’azienda consortile rappresentata dall’imputato, è responsabile per l’osservanza delle prescrizioni ambientali. ​ Questo significa che il titolare deve garantire che le condizioni dell’autorizzazione siano rispettate, indipendentemente dal fatto che la gestione operativa sia stata concessa a un’altra società. ​ La responsabilità non può essere delegata completamente al gestore dell’impianto. ​

Nel contesto della sentenza, la differenza tra titolare e gestore dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) è la seguente:

  • Titolare dell’AIA: È l’entità che ha ottenuto l’autorizzazione integrata ambientale. ​ In questo caso, l’azienda consortile di cui l’imputato è il presidente del consiglio di amministrazione. Il titolare è responsabile di assicurare che tutte le prescrizioni imposte dall’autorizzazione siano rispettate, indipendentemente da chi effettivamente gestisce l’impianto. ​
  • Gestore dell’impianto: È l’entità che effettivamente svolge le operazioni di gestione dell’impianto, come la realizzazione, la gestione operativa e la manutenzione. ​ Nel caso specifico, la gestione operativa dell’impianto è stata affidata in concessione a un’altra società. ​

La Corte ha stabilito che, nonostante la gestione operativa sia stata affidata a un’altra società, il titolare dell’AIA (l’azienda consortile) rimane responsabile per l’osservanza delle prescrizioni ambientali. ​

Scrive la Cassazione:

“…Come correttamente osservato dal Tribunale, la presenza in atti di un contratto di concessione, che affidava al concessionario gli oneri relativi alla realizzazione e alla gestione dell’ impianto e le relative responsabilità e riservava all’azienda consortile di cui l’ imputato è legale rappresentante il controllo sulla fase di costruzione e gestione, non vale ad escludere la responsabilità dell’ imputato stesso. Non deve dimenticarsi, infatti, che il soggetto titolare dell’autorizzazione ambientale era proprio l’azienda consortile, che era dunque tenuta a verificare l’osservanza di t u t t e le prescrizioni imposte nell’autorizzazione medesima….”

 

adminA.I.A.: Titolare e ..Gestore
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RIPRISTINO AMBIENTE?

RIPRISTINO AMBIENTE?

recupero energeticoRIPRISTINO AMBIENTE?

Cosa significa Ripristinare l’Ambiente?

segnalazione a cura StudioLegaleAmbiente – Cinzia Silvestri


Non è chiaro a tutti il significato dell’ordine di ripristinare l’ambiente tanto più se indicato in una sentenza penale. Quando si subisce la condanna al ripristino dell’ambiente sorge sempre un moto di sorpresa a carico dell’imputato che magari non aveva concordato la pena su questo punto (ritenendo di poterlo concordare). 

Ripristinare significa riportare alle condizioni originarie il sito e può assumere infinite modalità a seconda del luogo inquinato (non solo luoghi). La sentenza in commento sembra anche dire che il ripristino richiede una valutazione sul danno precisando che questa valutazione di danno è solo riferita alle misure ripristinatorie non al reato di riferimento che rimane , ad esempio nel caso trattato di “traffico illecito di rifiuti” sempre un reato di pericolo.

Il Giudice penale invero può ordinare in sede di condanna o di patteggiamento anche il ripristino dello stato dell’ambiente. Tale ordine è spesso confuso con la pena accessoria mentre è a tutti gli effetti una sanzione amministrativa che può essere ordinata d’ufficio in quanto consegue alla commissione del reato. Il reato di traffico illecito di rifiuti (art. 452 quaterdecies comma 4 c.p.) ad esempio prevede proprio questo tipo di sanzione che è dunque sottratta alle regole che disciplinano le pene accessorie.

Vediamo i punti interessanti della sentenza penale della Cassazione che conferma, in parte, la sentenza della Corte di appello di Venezia.

La Sentenza della Corte di appello di Venezia con sentenza del 19/04/2021 n. 39511, ha applicato  la pena concordata per il reato di cui all’art. ​ 452-quaterdecies c.p., ordinando il ripristino dello stato dell’ambiente. ​

  1. Ricorso per cassazione: Gli imputati hanno presentato ricorso per cassazione, contestando l’ordine di ripristino dello stato dell’ambiente, sostenendo che la Corte di appello aveva erroneamente applicato tale sanzione senza giustificare i parametri che ne giustificano l’adozione. Le parti avevano concordato la pena del patteggiamento e la Corte di appello aveva poi ordinato il “ripristino dello stato dell’ambiente” quale elemento nuovo rispetto alla condanna di primo grado. Gli imputati trattano la condanna al ripristino dello stato dell’ambiente come se fosse una pena accessoria, contestando la riformatio in peius ecc…. 
  2. Decisione della Corte di Cassazione: La Corte di Cassazione ha ritenuto parzialmente fondato il ricorso, specificando che l’ordine di ripristino dello stato dell’ambiente è una sanzione amministrativa accessoria che consegue ex lege al reato di cui all’art. ​ 452-quaterdecies c.p. ​: in materia di ambiente e territorio, viene conferito al giudice il potere di emanare un ordine finalizzato alla eliminazione delle conseguenze dell’ illecito, si ha l’attribuzione di funzioni speciali aventi carattere amministrativo, sebbene esercitate in sede di giurisdizionale. La sanzione dunque può essere ingiunta anche in secondo grado e a prescindere dalla pena concordata.
  3. Necessità di specifica motivazione: La Corte di Cassazione ha stabilito che l’applicazione della misura sanzionatoria del ripristino dello stato dell’ambiente richiede una specifica motivazione in ordine alla verificazione effettiva del danno o del pericolo per l’ambiente : ” Ne consegue che perchè possa trovare applicazione l’ordine di ripristino dell’ambiente occorre l’accertamento delle conseguenze dannose o pericolose della condotta illecita, non potendo presumersi l’esistenza di danno o pericolo per l’ambiente solamente per effetto ed in conseguenza della consumazione del reato.
  4. Annullamento con rinvio: La sentenza impugnata è stata rinviata a Giudice di appello per precisare la motivazione del ripristino dell’ambiente sotto il profilo del “danno”.
Cinzia SilvestriRIPRISTINO AMBIENTE?
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Amministratori senza deleghe: responsabilità

Amministratori senza deleghe: responsabilità

fonti rinnovabiliAmministratori senza deleghe: responsabilità

Cass. civ. n. 15054/2024

segnalazione a cura StudioLegaleAmbiente – Cinzia Silvestri


La sentenza della Corte di Cass. 15054/2024 riflette sul ruolo degli amministratori senza delega, ovvero amministratori che non hanno potere diretto di gestione in quanto conferito ad altri. La Cassazione affronta un problema legato al fallimento di una società e alla responsabilità da attribuire agli amministratori per il danno causato dal fallimento ai creditori. Secondo la Corte anche gli amministratori privi di deleghe sono responsabili per non aver preso le misure adeguate nel momento in cui sono venuti a conoscenza dell’insolvenza e delle problematiche economiche attraversate dalla Società. Gli amministratori  hanno sempre l’obbligo di verificare nel corso della gestione che il capitale sociale sia mantenuto integro nel valore. Gli amministratori senza deleghe non sono coinvolti per l’omissione di un generico dovere di vigilanza (sarebbe responsabilità oggettiva) ma rispondono nella misura in cui erano a conoscenza di fatti pregiudizievoli e non si sono attivati ma anche dei fatti dei quali avrebbero dovuto acquisire conoscenza con la dovuta diligenza.

Scrive la Corte: 3.4 Le conclusioni del Collegio sono in linea con la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale gli amministratori di società di capitali (i quali non abbiano operato) non sono responsabili per una generale omissione di vigilanza, tale da tramutarsi nei fatti in una responsabilità oggettiva ma rispondono delle conseguenze dannose della condotta di altri amministratori, che hanno operato, soltanto qualora siano a conoscenza di necessari dati di fatto tali da sollecitare il loro intervento, ovvero abbiano omesso di attivarsi per procurarsi gli elementi necessari ad agire informati. Ne deriva che gli amministratori non operativi rispondono per non aver impedito fatti pregiudizievoli dei quali abbiano acquisito in positivo conoscenza ovvero dei quali debbano acquisire conoscenza, di propria iniziativa, ai sensi dell’obbligo posto dall’ultimo comma dell’ articolo 2381 c.c. (cfr. Cass. 17441/2016).

 

 

Cinzia SilvestriAmministratori senza deleghe: responsabilità
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Reato – subentro posizione altrui

Reato – subentro posizione altrui

3.17. La deduzione difensiva che il rifiuto tessile sia invece da considerare sempre e comunque “materia prima tessile secondaria” (ed in quanto tale non rifiuto) non ha alcun fondamento. 3.18. Ed infatti, delle due l’una: o si tratta di sottoprodotti, ai sensi dell’art. 184 bis d.lgs. n. 152 del 2006 o di cosa (indumenti usati) di cui il detentore si è disfatto e che ha successivamente cessato di essere rifiuto ai sensi del successivo art. 184 ter; in entrambi i casi necessitano requisiti e condizioni di fatto che devono essere volta per volta dimostrati da chi predica la natura di “non rifiuto” del bene. Va al riguardo ribadito il principio costantemente affermato dalla Corte di cassazione secondo il quale l’onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità dell’utilizzo del rifiuto o che escludono la natura di rifiuto ricade su colui che ne invoca l’applicazione. Varie ne sono state le declinazioni in tema, per esempio, di attività di raggruppamento ed incenerimento di residui vegetali previste dall'art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini, Rv. 265839), di deposito temporaneo di rifiuti (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo, Rv. 264121), di terre e rocce da scavo (Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato, Rv. 263336), di interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate presenti sulla battigia per via di mareggiate o di altre cause naturali (Sez. 3, n. 3943 del 17/12/2014, Aloisio, Rv. 262159), di qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, Giaccari, Rv. 262129; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504), di deroga al regime autorizzatorio ordinario per gli impianti di smaltimento e di recupero, previsto dall'art. 258 comma 15 del D.Lgs. 152 del 2006 relativamente agli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee (Sez. 3, n. 6107 del 17/01/2014, Minghini, Rv. 258860), di riutilizzo di materiali provenienti da demolizioni stradali (Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone, Rv. 244784). 3.19. Che l’indumento usato possa essere definito “sottoprodotto” è in ogni caso circostanza che mal si concilia con la necessità che il sottoprodotto derivi da un processo di produzione, trattandosi piuttosto di cosa abbandonata dal suo detentore (e dunque rifiuto ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 152 del 2006) e in quanto tale non normata nemmeno dal Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti adottato dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare con D.M. n. 264 del 13 ottobre 2016 che esclude dalla sua applicazione i residui derivanti dall’attività di consumo (art. 3, lett. b). 3.20. Allo stesso modo, la cessazione della qualifica di rifiuto dell’indumento usato (o comunque del rifiuto tessile non proveniente da un processo di produzione) è subordinata alle operazioni di recupero, che necessitano di essere a loro volta autorizzate o comunque soggette a procedura semplificata ai sensi degli artt. 214 e segg. d.lgs. n. 152 del 2006, previste dal D.M. - Ministero dell’Ambiente - 5 febbraio 1998, Allegato 1, suballegato 1, n. 8, operazioni i cui esiti vengono dati come scontati dai ricorrenti ma la cui sussistenza costituisce, come detto, lo scopo del mezzo istruttorio adottato dal Pubblico ministero.Reato  – Subentro posizione altrui.

Cass. Pen. n. 30929/2024

 Segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


Reato ambientale  – subentro nella posizione altrui. Responsabilità diretta.

La sentenza consente di riflettere sul fatto che subentrare nella gestione di rifiuti altrui, già gravata da condotta di reato, non solleva da responsabilità colui che subentra. Colui che subentra è responsabile, pur non essendo l’originario autore del reato, in quanto assume la gestione diretta, contrattualmente.

Nel caso di reato di gestione illecita rifiuti (art. 256 Dlgs. 152/2006) il perdurare della fattispecie illecita, continua anche nel caso in cui, nel corso del piano di smaltimento iniziato dall’azienda responsabile del deposito, avvenga la cessione ad altro soggetto. Colui che subentra rimane obbligato allo smaltimento e assume responsabilità diretta e la gestione de rifiuti.

In sintesi, il legale rappresentante della Società subentrata, che si era impegnata allo smaltimento, ​veniva ritenuto responsabile di aver lasciato in deposito incontrollato i rifiuti presso l’impianto aggravando la situazione preesistente, non adempiendo all’obbligo di smaltimento assunto al momento dell’acquisto del ramo di azienda dalla precedente Società.

In particolare:

La permanenza del reato di deposito incontrollato di rifiuti termina quando l’autore del reato perde la signoria sui rifiuti,

  • sia per effetto di un atto autoritativo (es. sequestro)
  • sia perché l’autore cessa la propria carica in virtù della quale esercitava tale dominio.

Colui che subentra contrattualmente nella gestione di rifiuti già presenti e ne assume la gestione diretta, risponde del reato di deposito incontrollato di rifiuti qualora ometta di smaltirli, lasciandoli in uno stato di deposito incontrollato. Questa responsabilità non può essere qualificata come ………

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Cinzia SilvestriReato – subentro posizione altrui
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RIFIUTI TESSILI – SOTTOPRODOTTI?

RIFIUTI TESSILI – SOTTOPRODOTTI?

 3.17. La deduzione difensiva che il rifiuto tessile sia invece da considerare sempre e comunque “materia prima tessile secondaria” (ed in quanto tale non rifiuto) non ha alcun fondamento. 3.18. Ed infatti, delle due l’una: o si tratta di sottoprodotti, ai sensi dell’art. 184 bis d.lgs. n. 152 del 2006 o di cosa (indumenti usati) di cui il detentore si è disfatto e che ha successivamente cessato di essere rifiuto ai sensi del successivo art. 184 ter; in entrambi i casi necessitano requisiti e condizioni di fatto che devono essere volta per volta dimostrati da chi predica la natura di “non rifiuto” del bene. Va al riguardo ribadito il principio costantemente affermato dalla Corte di cassazione secondo il quale l’onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità dell’utilizzo del rifiuto o che escludono la natura di rifiuto ricade su colui che ne invoca l’applicazione. Varie ne sono state le declinazioni in tema, per esempio, di attività di raggruppamento ed incenerimento di residui vegetali previste dall'art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini, Rv. 265839), di deposito temporaneo di rifiuti (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo, Rv. 264121), di terre e rocce da scavo (Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato, Rv. 263336), di interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate presenti sulla battigia per via di mareggiate o di altre cause naturali (Sez. 3, n. 3943 del 17/12/2014, Aloisio, Rv. 262159), di qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, Giaccari, Rv. 262129; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504), di deroga al regime autorizzatorio ordinario per gli impianti di smaltimento e di recupero, previsto dall'art. 258 comma 15 del D.Lgs. 152 del 2006 relativamente agli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee (Sez. 3, n. 6107 del 17/01/2014, Minghini, Rv. 258860), di riutilizzo di materiali provenienti da demolizioni stradali (Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone, Rv. 244784). 3.19. Che l’indumento usato possa essere definito “sottoprodotto” è in ogni caso circostanza che mal si concilia con la necessità che il sottoprodotto derivi da un processo di produzione, trattandosi piuttosto di cosa abbandonata dal suo detentore (e dunque rifiuto ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 152 del 2006) e in quanto tale non normata nemmeno dal Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti adottato dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare con D.M. n. 264 del 13 ottobre 2016 che esclude dalla sua applicazione i residui derivanti dall’attività di consumo (art. 3, lett. b). 3.20. Allo stesso modo, la cessazione della qualifica di rifiuto dell’indumento usato (o comunque del rifiuto tessile non proveniente da un processo di produzione) è subordinata alle operazioni di recupero, che necessitano di essere a loro volta autorizzate o comunque soggette a procedura semplificata ai sensi degli artt. 214 e segg. d.lgs. n. 152 del 2006, previste dal D.M. - Ministero dell’Ambiente - 5 febbraio 1998, Allegato 1, suballegato 1, n. 8, operazioni i cui esiti vengono dati come scontati dai ricorrenti ma la cui sussistenza costituisce, come detto, lo scopo del mezzo istruttorio adottato dal Pubblico ministero.RIFIUTI TESSILI – Sottoprodotti?

Cass. pen. 35000/2024 – Esclusione

segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


Interessante sentenza che chiarisce la destinatzione dei rifiuti tessili ed esclude che possano essere trattati come sottoprodotti (art. 184 bis Dlgs. 152/2006) o EOW – cessazione qualifica rifiuto /art. 184 ter Dlgs. 152/2006.

Percorsi diversi.

La sentenza, negli ultimi punti, chiarisce la differenza ed il significato delle 2 categorie giuridiche (sottoprodotto e EOW) e soprattutto sottilinea la necessità della prova: se l’imputato ritiene di indicare il tessuto come sottoprodotto deve darne prova in giudizio.

Si riporta estratto della sentenza che chiarisce il percorso logico/giuridico:

“3.17. La deduzione difensiva che il rifiuto tessile sia invece da considerare sempre e comunque “materia prima tessile secondaria” (ed in quanto tale non rifiuto) non ha alcun fondamento.
3.18. Ed infatti, delle due l’una: o si tratta di sottoprodotti, ai sensi dell’art. 184 bis d.lgs. n. 152 del 2006 o di cosa (indumenti usati) di cui il detentore si è disfatto e che ha successivamente cessato di essere rifiuto ai sensi del successivo art. 184 ter; in entrambi i casi necessitano requisiti e condizioni di fatto che devono essere volta per volta dimostrati da chi predica la natura di “non rifiuto” del bene. Va al riguardo ribadito il principio costantemente affermato dalla Corte di cassazione secondo il quale l’onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità dell’utilizzo del rifiuto o che escludono la natura di rifiuto ricade su colui che ne invoca l’applicazione. Varie ne sono state le declinazioni in tema, per esempio, di attività di raggruppamento ed incenerimento di residui vegetali previste dall’art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152 .. di deposito temporaneo di rifiuti …, di terre e rocce da scavo (… di interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate presenti sulla battigia per via di mareggiate o di altre cause naturali … di qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali …., di deroga al regime autorizzatorio ordinario per gli impianti di smaltimento e di recupero, previsto dall’art. 258 comma 15 del D.Lgs. 152 del 2006 relativamente agli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee …., di riutilizzo di materiali provenienti da demolizioni stradali ….
3.19. Che l’indumento usato possa essere definito “sottoprodotto” è in ogni caso circostanza che mal si concilia con la necessità che il sottoprodotto derivi da un processo di produzione, trattandosi piuttosto di cosa abbandonata dal suo detentore (e dunque rifiuto ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 152 del 2006) e in quanto tale non normata nemmeno dal Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti adottato dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare con D.M. n. 264 del 13 ottobre 2016 che esclude dalla sua applicazione i residui derivanti dall’attività di consumo (art. 3, lett. b).
3.20. Allo stesso modo, la cessazione della qualifica di rifiuto dell’indumento usato (o comunque del rifiuto tessile non proveniente da un processo di produzione) è subordinata alle operazioni di recupero, che necessitano di essere a loro volta autorizzate o comunque soggette a procedura semplificata ai sensi degli artt. 214 e segg. d.lgs. n. 152 del 2006, previste dal D.M. – Ministero dell’Ambiente – 5 febbraio 1998, Allegato 1, suballegato 1, n. 8, operazioni i cui esiti vengono dati come scontati dai ricorrenti ma la cui sussistenza costituisce, come detto, lo scopo del mezzo istruttorio adottato dal Pubblico ministero…”

Cinzia SilvestriRIFIUTI TESSILI – SOTTOPRODOTTI?
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Rifiuti: Abbandono o deposito?

Rifiuti: Abbandono o deposito?

Rifiuti: Abbandono o Deposito?

Risponde la Cassazione Pen. n. 30929/2024

segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


 

La Cassazione chiarisce la differenza tra abbandono dei rifiuti e deposito in ogni sua forma (temporaneo, incontrollato ecc..)  . Palestra di esercizio è l’art. 256 comma 2 Dlgs. 152/2006 che, afferma la sentenza ” ….punisce allo stesso modo l’abbandono e il deposito incontrollato di rifiuti…”.

Continua la sentenza : “…Pur equivalenti ai fini della pena, le due condotte sono però diversissime e alternative tra loro..”

Si riassume in parte quanto precisato in sentenza:

ABBANDONO

  1. … l’abbandono, si esaurisce in un gesto isolato che produce res derelictae”;
  2. l’abbandono comporta l’uscita definitiva della cosa dal dominio finalistico dell’autore della condotta
  3. Abbandonare, invece, significa “lasciare definitivamente e per sempre” un luogo, una cosa, una persona, oppure “smettere di fare o di occuparsi di una cosa, ritirarsi da un’ impresa o dal luogo della competizione” –
  4. l’abbandono non ha dominio sulla cosa
    DEPOSITO
  5.  il deposito, evoca comunque il persistente dominio sulle cose e ne esclude l’abbandono (che è cosa diversa dallo “stato di abbandono” che costituisce una delle possibili manifestazioni esteriori del deposito incontrollato).
  6. deposito, invece, comunque lo si definisca (temporaneo, irregolare, controllato, incontrollato), reca in sé i segni dell’altrui dominio sulla cosa tant’è vero che il legislatore ne coglie il tratto finalistico quando lo considera legittimo solo se (e perché) finalizzato alla raccolta (purché nella costanza delle condizioni di cui all’art. 185-bis D.Lgs. n. 152 del 2006).
  7. Secondo l’ italiano corrente, il verbo “depositare” significa “affidare, lasciare in deposito”, laddove il sostantivo “deposito” indica l’atto con cui si “depone un oggetto in un luogo o lo si affida a una persona, perché venga custodito e riconsegnato a un’eventuale richiesta o allo scadere di un termine prefisso”, o “il luogo dove vengono custodite le cose depositate o comunque di proprietà altrui o quello nel quale sono raccolte cose omogenee, e le cose stesse che vi sono raccolte”.
  8. Il deposito può essere effettuato con un solo atto o con più condotte (nel senso che il deposito può avere natura eventualmente abituale, ..) ma quel che rileva è che il “deposito” reca in sé i segni del persistente dominio sulla cosa che manca del tutto nell’abbandono (..).

 


Cinzia SilvestriRifiuti: Abbandono o deposito?
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Rifiuti: abbandono pubblica via

Rifiuti: abbandono pubblica via

Rifiuti: abbandono pubblica via

Trib. Palermo n. 770/2024

Assoluzione, il fatto non sussiste

Segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


Rifiuti e abbandono sulla pubblica via. Cassette di plastica, cartone, legno, grossi sacchi neri derivanti dall’attività commerciale (attività ortofrutta) venivano abbandonati sul suolo, nella pubblica via, da alcuni soggetti, vicino ai cassonetti.

Il fatto veniva ripreso da telecamere.

L’impresa riconosceva dalle immagini il proprio autocarro ma ignorava tale “smaltimento” in quanto era solita servirsi di una ditta che conferiva al centro comunale di raccolta.

La sentenza del Tribunale ragiona sull’applicabilità dell’art. 256 Dlgs. 152/2006 che attribuisce illiceità alla condotta sopra descritta.

È vero che per configurare il reato di cui all’art. 256 Dlgs. 152/2006 è sufficiente anche una sola condotta “ma a patto che questa costituisca una “attività” e dunque non sia meramente occasionale..”.

Quando una condotta può essere ritenuta occasionale?

Il Tribunale collega la occasionalità alla comprensione del significato di “reato comune o proprio” e di conseguenza alla dimensione delle attività di gestione.

L’art. 256 comma 1 Dlgs. 152/2006 riferisce le condotte a “chiunque” effettua le attività elencate (smaltimento, trasporto ec…) ed evoca il reato “comune” ovvero che può essere commesso appunto da chiunque. Si contrappone il comma 2 dell’art. 256 che indica invece un reato proprio ovvero che può essere commesso solo da soggetti con specifica qualifica come “i titolari di imprese” e i responsabili di enti”.

Questa classica ripartizione è amata dalla giurisprudenza che spesso e volentieri non ha indagato sulla reale portata ...continua lettura articolo commento sentenza Trib Palermo 770.2024

Cinzia SilvestriRifiuti: abbandono pubblica via
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Sindaco…sempre responsabile?

Sindaco…sempre responsabile?

SINDACO: SEMPRE RESPONSABILE?

Sindaco e Dirigenti: responsabilità

segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


La sentenza della cassazione penale  n. 1451/2024 affronta il tema della responsabilità del Sindaco in merito  allo scarico  di reflui dal depuratore gestito dal Comune. La sentenza affronta diversi temi interessanti articolando anche la distinzione tra responsabilità del Sindaco e quella dei dirigenti. 

Nel caso tratto dalla sentenza, il Sindaco è stato ritenuto responsabile anche per fatti precedenti alla sua nomina. Responsabile non solo per i dati fattuali risultanti dalla istruttoria ma anche per il ruolo di vertice dell’azione amministrativa e politica del Comune; attività di controllo e vigilanza che non  si attenua a fronte delle competenze e attribuzioni della dirigenza. 

Sono ambiti diversi in cui l’uno finisce dove comincia l’altro. Non è semplice cogliere esattamente il limite ma questa sentenza cesella e ricorda  proprio questi ambiti di responsabilità

Vi lascio alla lettura dell’articolo breve in commento Nota a sent. 1451-2024

Cinzia SilvestriSindaco…sempre responsabile?
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SOTTOPRODOTTI e ONERE DELLA PROVA

SOTTOPRODOTTI e ONERE DELLA PROVA

Cass. pen. n. 47690/2023 – scarti di origine animale

segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


La riproduzione di tale articolo in testi o altri siti deve riportare il nominativo dell’autore avv. Cinzia Silvestri – Studio Legale Ambiente e del sito www.studiolegaleambiente.it.

Scarti di origine animale. Sottoprodotti e onere della prova. Il reato contestato alla Società coinvolta è l’art. 256 comma 1 lettera a) d.lgs. 152/2006 relativo alla gestione illecita di rifiuti ovvero di scarti animali.

La difesa della società assume che la qualifica di sottoprodotto e dunque la esclusione dall’applicazione della normativa rifiuti, discende proprio dalla indicazione dell’art. 185 lett. b) che esclude espressamente dalla normativa rifiuti gli scarti di origine animale, eccetto quelli destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo di un impianto di produzione di biogas o di compostaggio.

La questione da risolvere è formale e sostanziale. La difesa pare sostenere che la esclusione dal novero dei rifiuti da parte dell’art. 185 lett. a) sia da solo sufficiente alla esclusione . La Corte la pensa diversamente in quanto ritiene che la natura di sottoprodotto degli scarti di origine animale deve essere comunque provata da chi sostiene tale natura. Non basta la indicazione normativa di esclusione che peraltro è condizionata dalla verifica di altri elementi in quanto  il sottoprodotto (non rifiuto) esiste solo in quanto esistono determinati requisiti ben indicati dall’art .184 bis d.lgs. 152/2006 e DM 264/2016.

La Cassazione offre spunto per riassumere e chiarire il concetto di sottoprodotto. 

Precisa la Corte che ” poiché la disciplina dei sottoprodotti è derogatoria rispetto a quella generale in tema di rifiuti, la qualificazione di un residuo come sottoprodotto, anziché rifiuto, in caso di dubbio, deve essere provata da colui che detto sottoprodotto ha lavorato o smaltito. In altre parole, ogniqualvolta non sia rispettato il processo normativo che può individuare la categoria del sottoprodotto, esso deve essere considerato quale rifiuto.”.

Il tema affrontato è quello degli scarti animali ma l’assunto relativo all’onere della prova riguarda tutti i residui di produzione che vengono classificati come sottoprodotti.

Precisa la Corte: “la qualificazione o meno del rifiuto (peraltro presunta) discende …dal comportamento del detentore…Il sottoprodotto nasce ..con la certezza di essere riutilizzato…”

La Corte riassume e richiama la rete normativa di riferimento entro la quale deve snodarsi il pensiero giuridico: Il Regolamento 1069/2009/CE; il d.lgs. 152/2006 art. 184 bis; 185 lett. a) d.lgs. 152/2006; DM 264/2016…

Leggi sentenza 47690/2023 Cass. penale sottoprodotto e onere prova

Cinzia SilvestriSOTTOPRODOTTI e ONERE DELLA PROVA
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ARIA: Limiti emissivi e DEROGHE

ARIA: Limiti emissivi e DEROGHE

LIMITI EMISSIVI E DEROGHE

Corte Giustizia UE n. 375/2021 (9.3.2023)

segnalazione a cura Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


L’articolo riassume la relazione tenuta da Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri in data 24.5.2023 in occasione del Convegno, con date al 10,17,24,30 maggio 2023, organizzato da ISPRA, RSE, UNICHIM, ACCREDIA, sulle EMISSIONI.

La domanda di pronuncia pregiudiziale risolta dalla Corte di Giustizia in commento, è punto di partenza per sviluppare riflessione sulle novità che verranno introdotte con le modifiche alla Direttiva sulle emissioni Industriali 2010/75/UE.

Si consideri invero che le norme sulla qualità dell’aria (Direttiva 2008/50/CE) sono state recepite dal Dlgs. 155/2010. L’art. 15 par. 4 della Direttiva 2010/75 è stato inserito nel Codice ambientale all’art. 29 co. 9-bis e l’art. 18, trasferitonell’art. 29 septies (Dlgs. 152/2006).

La lettura della sentenza della Corte Giustizia permette dunque di “interpretare” le norme oggi vigenti anche nel nostro codice ambientale, e anticipa, di fatto, le prossime modifiche alla Direttiva 2010/75/UE.

E’ nota infatti la proposta di modifica della Direttiva 2010/75/UE di cui conosciamo il nuovo testo nella versione della Commissione 5.4.2022: proposta che ha modificato proprio ed anche gli articoli richiamati, e che conforta l’interpretazione resa dalla Corte di Giustizia, in commento.

Il Caso – La sentenza Corte Giustizia UE n. 375/2021

Il caso riguarda i presupposti che permettono ..continua lettura articolo art. 15 Direttiva 2010.7

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Cinzia SilvestriARIA: Limiti emissivi e DEROGHE
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RUMORE: POTERI SINDACO

RUMORE: POTERI SINDACO

RUMORE: POTERI SINDACO

TAR EMILIA ROMAGNA N. 159/2023

A cura di Cinzia Silvestri– Studio Legale Ambiente


Il TAR Emilia Romagna affronta questione consolidata ma ancora oggetto di interpretazione.

Il potere di ordinanza ai sensi della L. 447/95 art. 9 è del Sindaco, non del dirigente.

La sentenza ricorda che:

  • Il potere di ordinanza ex art. 9 L. 447/95 non va confuso con il diverso potere di ordinanza contingibile ed urgente in materia di sanità e igiene pubblica
  • Il potere di ordinanza ex art. 9 L. 447/95 costituisce potere ordinario di intervento ai fini della tutela della pubblica salute
  • L’ordinanza emessa dal “dirigente” è dunque illegittima con caducazione di tutti gli atti anche istruttori eseguiti (arpae ecc…).
  • Il difetto di competenza del dirigente comporta che si versa nella situazione in cui il “…potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non essendogli consentito dettare le regole dell’azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus, secondo una regola valevole anche nelle ipotesi in cui il vizio di incompetenza attenga a relazioni …

In particolare, recita il TAR: CONTINUA LETTURA ARTICOLO: RUMORE: POTERI SINDACO

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Cinzia SilvestriRUMORE: POTERI SINDACO
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Combustibile Solido Secondario: ragioni di utilizzo

Combustibile Solido Secondario: ragioni di utilizzo

Combustibile Solido Secondario: ragioni di utilizzo

CSS – AIA – TAR UMBRIA – 2023

A cura di Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri – 17.1.2023

Combustibile Solido Secondario: ragioni di utilizzo

Il Comune di Gubbio chiedeva al TAR Umbria l’annullamento della DD Regionale che aggiornava le condizioni e prescrizioni dell’AIA rilasciata in favore di una Società.

La Società chiedeva alla Regione invero la modifica NON sostanziale “ relativa all’utilizzo di CSS – Combustibile (CSS-C) conforme ai requisiti di cui all’articolo 13 del decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare n. 22 del 2013,in parziale sostituzione dei combustibili di origine fossile utilizzati nella produzione del clinker fino ad un valore massimo di 50.000 tonnellate/anno, da realizzare in conformità al progetto costituito dagli elaborati richiamati nell’Allegato A”,

La questione si pone nell’ambito della utilità di sostituire i combustibili di origine fossile (carbone, petrolio e gas naturale) utilizzati per la produzione dei clinker ovvero di uno dei componenti base per la produzione di cemento.

Viene richiamato l’art. 13 del DM 22/2013 la cui lettura rinvia alla articolata connessione con altre norme del testo che giungono tutte all’art. 184-ter Dlgs. 152/2006 ovvero alla disciplina della “cessazione della qualifica di rifiuto” (art. 4 DM 22/2013).

E’ utile precisare che... continua lettura articolo Tar Umbria CSS 

Per leggere  la sentenza chiedi la password all’indirizzo mail info@studiolegaleambiente.it

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Rifiuti sottoterra… che fare?

Rifiuti sottoterra… che fare?

Ordinanza rimozione rifiuti ex art. 192 D.lgs. 152/2006

Difetto d’istruttoria – TAR Lombardia Brescia n. 435/2021

A cura di Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri 


Il TAR Lombardia Brescia n. 435/2021 precisa l’importanza della “istruttoria” che accompagna l’individuazione del responsabile di abbandono dei rifiuti e i presupposti per emettere ordinanza ex art. 192 D.lgs. 152/2006.

Nel caso esaminato, il Comune ordinava la rimozione di rifiuti rinvenuti sul sito di proprietà di società subentrate, ipso iure,  a una nota azienda di gestione rifiuti. Venivano rinvenuti nel terreno, nel sottosuolo, sacchi neri marcati dalla società gestrice del servizio negli anni ’60 e ’70.

Le censure alle ordinanze ex art. 192 Dlgs. 152/2006 emesse dal Comune sono molteplici ma il TAR si sofferma sulla mancanza di “istruttoria” utile a individuare, con una certa certezza, l’effettivo responsabile.

Il TAR precisa infatti che …continua lettura “rimozione rifiuti e istruttoria”….

Cinzia SilvestriRifiuti sottoterra… che fare?
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Rimozione rifiuti e responsabilità per la consegna delle chiavi….

Rimozione rifiuti e responsabilità per la consegna delle chiavi….

Ordinanza rimozione rifiuti ex art. 192 Dlgs. 152/2006

Consegna delle chiavi: rilevanza/TAR Lombardia Brescia n. 390/2021

A cura di Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri


Il TAR Lombardia Brescia n. 390/2021 affronta caso che pone in luce la verifica della colpevolezza anche in capo al proprietario dell’immobile incolpevole che viene però raggiunto da una ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti ex art. 192 Dlgs. 152/2006. La consegna delle chiavi al locatario, ad esempio, può costituire, per certa giurisprudenza, un elemento da indagare per accertare l’effettiva responsabilità in concorso del locatore. La questione, il punto di riflessione, si pone anche nel caso di vendita dell’immobile, anche se non portato a definizione.

Accade spesso, nella pratica, che il venditore anticipi la consegna delle chiavi prima della vendita effettiva; accade, altrettanto spesso, che le chiavi vengano consegnate dalla agenzia immobiliare senza notiziare il proprietario. E’ questo il caso trattato dalla sentenza TAR Lombardia-Brescia n. 390/2021 … continua lettura articolo “rimozione rifiuti e consegna delle chiavi ….”

Cinzia SilvestriRimozione rifiuti e responsabilità per la consegna delle chiavi….
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